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L’aeronautica militare israeliana ha condotto un’esercitazione simulando un attacco massiccio contro un sito del programma nucleare iraniano, riporta in esclusiva Kan News. Il raid simulato, due settimane fa, ha impegnato decine di jet da combattimento. Un ufficiale dell’Air Force statunitense ha partecipato come osservatore. L’esercitazione ha incluso vari scenari, tra cui il rifornimento in aria per rendere l’azione continuativa, attacchi a lungo raggio e risposte ai missili antiaerei.

Israele e Stati Uniti stanno da tempo studiando un piano secondario, di carattere offensivo, se le cose con l’Iran dovessero mettersi male. Nelle prossime settimane è atteso uno scatto definitivo nel processo diplomatico per la ricomposizione del Jcpoa, l’accordo per il congelamento del programma nucleare iraniano siglato nel 2015 e messo in grosse difficoltà dal ritiro unilaterale deciso nel 2018 dall’amministrazione Trump.

Funzionari israeliani e americani di vario rango e settore — politico, militare, intelligence — stanno tenendo un’interlocuzione costante. Gerusalemme vuole evitare che Washington stringa un’intesa troppo svantaggiosa per i propri interessi — che vedono Israele intenzionato a contenere la Repubblica islamica, individuata come un nemico esistenziale dello stato ebraico.

Anche per questo Gerusalemme si porta avanti, così come si è portato avanti attraverso operazioni clandestine condotte dal Mossad — spesso in cooperazione o condivisone con la Cia. Per esempio, proprio in questi giorni Teheran ha comunicato all’Agenzia internazionale per l’energia atomica lo spostamento della produzione delle centrifughe dal sito di Karaj— danneggiato da un sabotaggio attribuito al Mossad — a Isfahan. Per gli iraniani questa sito può garantire una maggiore sicurezza.

Gli israeliani considerano la minaccia iraniana più ampia del dossier nucleare in sé. Teheran, attraverso i Pasdaran, controlla infatti un network di milizie che seguono un’agenda più o meno eterodiretta dall’Iran (con qualche variante, visto che queste milizie stanno acquisendo sempre più indipendenza, rafforzate dagli aiuti iraniani militari e non).

In questo quadro — dove il raggiungimento del livello di deterrenza nucleare farebbe dell’Iran un attore molto più difficile da contenere — l’elemento di cronaca centrale riguarda gli attacchi della milizia yemenita Houthi, collegata ai Pasdaran, contro gli Emirati Arabi Uniti, neo-alleati di Israele post Accordi di Abramo.

La ricomposizione del Jcpoa, le azioni delle milizie sciite, le esercitazioni israeliane, sono fascicoli solo apparentemente separati, piuttosto parte di uno stesso complesso e articolato dossier in cui gli Stati Uniti sono costretti a muoversi per evitare di vedere alleati strategici (come Gerusalemme e Abu Dhabi) rivolgersi ad altri attori rivali come Russia o Cina, o agire in via indipendente col rischio di destabilizzazioni ampie — mentre per Washington nel quadrante è necessario equilibrio, per poter gestire il tutto da remoto e dedicarsi altrove.

In questi giorni il Pentagono ha deciso di inviare il cacciatorpediniere lanciamissili “USS Cole” e diversi jet da combattimento negli Emirati, per confermare il proprio interessamento al tema sicurezza di Abu Dhabi messo in crisi dai continui attacchi degli Houthi. Attacchi che hanno finora prodotto danni di entità minore solo grazie all’intercettazioni di alcuni missili fornita dai sistema di difesa aerea americana.

Questo rafforzamento della presenza statunitense nell’area — che arriva in forma temporanea e in mezzo alla volontà di disimpegno — è una via di rassicurazione nel momento del bisogno per gli emiratini, che intanto sono in discussione con Israele per l’acquisizione di radar Green Pine e forse dello scudo aereo Iron Dome.

Mezzi con cui difendersi dai droni e i missili che gli yemeniti hanno sviluppato grazie alla componentistica fornite dall’Iran. Schema che piace a Washington, che contribuisce a fornire intelligence a entrambi gli alleati per anticipare le mosse iraniane.

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