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I satelliti nell’orbita geostazionaria a 36000 chilometri di altezza da Terra sono strategici per l’economia mondiale e per la difesa e sicurezza globali. A quell’altezza un satellite artificiale ha una velocità orbitale di 3 km/s e un periodo di rivoluzione pari a quello della rotazione terrestre, di conseguenza sembra restare sempre fisso su un punto del pianeta sottostante. Ciò consente a una stazione terrestre di avere una trasmissione stabile senza dover muovere le antenne di puntamento. Inoltre, un singolo satellite geostazionario può osservare un terzo dell’intero globo terrestre, quindi posizionandone tre a 120 gradi di distanza tra loro, tutto il pianeta è controllabile. Ecco perché quest’orbita è strategica per il monitoraggio climatico, per le comunicazioni e per la sorveglianza.

I satelliti geostazionari

I satelliti geostazionari sono uno strumento fondamentale per le forze armate e nel contempo sono preziosi per le società commerciali mondiali, che ne ricavano un volume di affari di oltre 250 miliardi di dollari secondo le stime della Satellite industry association americana.
Il controllo e la difesa di questa fascia orbitale è sempre stato un imperativo per gli Stati Uniti che, secondo le stime della Union of concerned scientists, possiedono la flotta spaziale geostazionaria più numerosa con circa 200 satelliti a uso governativo e militare. Dal 2015 il Pentagono opera i satelliti Gssap – Geosynchronous space situational awareness – dotati di sensori con cui monitorare le mosse avversarie proprio nell’orbita geostazionaria.

Manovre in orbita, le Rpo

Le tecniche di attacco nello spazio infatti, non si limitano solo ai lanci missilistici da Terra ma includono le manovre di avvicinamento in orbita dette Rpo – Rendez-vous and proximity operations – le cui tecniche sono state sviluppate sin dagli anni sessanta per gli agganci delle capsule lunari Apollo. Nei prossimi anni le Rpo saranno uno strumento di attacco e dissuasione e verranno effettuate con veicoli automatici, dei droni spaziali, in grado di modificare la propria orbita per raggiungere i satelliti avversari e disturbarli, spostarli o distruggerli. Stati Uniti, Russia e Cina sperimentano le Rpo già da anni, ma sinora solo Washington era riuscita a sviluppare con successo un sistema automatico di aggancio e spostamento orbitale a quota geostazionaria. Ne avevamo parlato due anni fa quando la Northrop Grumman, una delle principali aziende aerospaziali fornitrici del Pentagono, aveva lanciato il Mev – Mission extension vehicle – che, per la prima volta nella storia, aveva agganciato in orbita geostazionaria il satellite commerciale Intelsat 901 che stava esaurendo il propellente di bordo.

La Cina e gli Usa

Pochi giorni fa, anche la Repubblica Popolare di Pechino ha effettuato per la prima volta una Rpo a quota geostazionaria. Il satellite Shijian-21 lanciato a ottobre, si è agganciato a 36000 chilometri con un vecchio satellite cinese fuori uso, Beidou-2 G2, e poi ne ha alterato drasticamente l’altezza azionando i propri motori. Una volta sganciatosi, lo Shijian-21 è ritornato alla quota geostazionaria secondo quanto rilevato dal 18th Space control squadron della Us space force. Guardando il lato romantico della questione si potrebbe pensare che Usa e Cina lavorino per sviluppare tecnologie in grado di rimuovere i satelliti inattivi così da operare in modo responsabile e ripulire le orbite dai detriti causati dalle loro stesse operazioni spaziali. Una lettura più realistica deve considerare che le superpotenze che si affrontano sul pianeta lo fanno parimenti nello Spazio e le dimostrazioni di Rpo esplicitano la loro sempre più spinta capacità offensiva orbitale. Se dal 2020 la capability di attacco geostazionario era nelle mani di una sola superpotenza, oggi tutti i satelliti sono diventati vulnerabili, anche quelli statunitensi. Nello Spazio il confronto militare e geopolitico tra le due superpotenze si è ufficialmente spostato dalle orbite terrestri basse (sotto i 2000 chilometri) a quelle geostazionarie a 36000 chilometri di altezza ritenute sino a oggi un santuario difficile da raggiungere.

Quello cui stiamo assistendo è il dispiegamento in fase pre-operativa di strumenti tecnologici che spostano il baricentro tattico per la supremazia terrestre sempre di più nello Spazio profondo, al punto che adesso la stessa fascia cislunare assume una valenza strategica quasi prioritaria.

 E l’Europa?

A Bruxelles si è appena conclusa la 14esima edizione della Space conference dove il commissario Ue al mercato interno, difesa e spazio, il francese Thierry Breton, ha dichiarato che entro il 2022 l’Europa deve pubblicare una sua strategia spaziale di difesa e sicurezza. Certamente, si tratta di un approccio necessario ma apparentemente sembra già tardivo. Nello Spazio l’Europa – ammesso che ciò voglia dire che esista un nucleo significativo di nazioni europee con capacità tecnologiche in comune e che condividono una strategia globale – rischia seriamente entro pochi anni di ritrovarsi commercialmente accerchiata da monopolisti privati globali finanziariamente dominanti, e nel contempo militarmente inibita da superpotenze tecnologicamente più avanzate e aggressive. A quel punto servirà a poco disporre di lanciatori e satelliti senza avere una capacità tecnologica di mutua dissuasione potenziale, la quale potrebbe nel contempo anche avere funzionalità di un utilizzo spaziale sostenibile. E su questo che i decisori europei dovrebbero iniziare a riflettere seriamente.

Venti di guerra tra Usa e Cina a 36mila km dalla Terra

Shijian-21 è un satellite cinese lanciato in orbita a ottobre che avrebbe come scopo l’aggancio e la rimozione di detriti spaziali. Pochi giorni fa ha agganciato un vecchio satellite fuori uso spostandolo dall’orbita geostazionaria con una manovra che sinora era riuscita solo agli Stati Uniti. Le conseguenze geopolitiche sono enormi. L’opinione dell’ingegnere ed esperto aerospaziale

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