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“A Draghi si arriverà. Per inerzia”. Un mix di rassegnazione e realismo guida le mosse del Pd all’ombra del Colle. Sulla candidatura di Mario Draghi al Quirinale il Nazareno ha messo il cappello. Una candidatura che doveva scivolare liscia e invece alla vigilia del voto a Montecitorio ha iniziato a diventare più impervia.

Neanche oggi che il premier ha rotto gli indugi ed è sceso in campo facendo di Palazzo Chigi il quartier generale dell’operazione Colle esiste la certezza matematica. Lo ha capito non senza un po’ di sconforto il segretario Enrico Letta, che più di tutti si è esposto per l’ex capo della Bce e oggi si scopre attore non protagonista della partita.

La sensazione che si fa strada tra le fila del Pd mentre si prepara alla seconda chiama, dopo una prima valanga di schede bianche infilate nelle insalatiere lunedì, è che il boccino ce l’abbia qualcun altro. Il Movimento Cinque Stelle dalla sua ha i numeri ma è anche un assembramento di franchi tiratori che Giuseppe Conte difficilmente riuscirà a controllare. È il centrodestra, dicono i dem scrollando le spalle, che deve dire una parola finale su Draghi.

Non è bastato il faccia a faccia a Chigi tra il premier e il leader della Lega Matteo Salvini lunedì pomeriggio. In attesa che si sciolga il nodo più intricato, quello sul futuro assetto del governo che i leghisti vorrebbero ribaltato accompagnando alla porta i tecnici e soprattutto la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, Salvini prende tempo promettendo una “rosa di nomi”. Tutti validi e però difficilmente pronti a sfondare nello schieramento opposto, da Elisabetta Casellati a Franco Frattini, che piacerebbe anche a Conte. Resta poi da capire come si muoverà il corpaccione centrista e i forzisti, e cosa deciderà Silvio Berlusconi, non poco risentito con i suoi alleati per il ritiro della sua candidatura.

Mentre la matassa del centrodestra si aggroviglia il Pd attende. Nella consapevolezza che l’operazione Draghi andrà in porto, se non per convinzione, per sfinimento. C’è solo un altro nome davvero in campo: Pier Ferdinando Casini.

L’ex presidente della Camera e Dc doc ha dalla sua una rete di buoni rapporti trasversali tessuta in trentott’anni in Parlamento e l’esperienza internazionale. Un politico allo stato puro, per una soluzione politica che non pochi tra le file dem, specie tra gli ex renziani di Base Riformista, preferirebbero a Draghi per il Colle.

Ma il tempo corre e il pressing per il momento gioca in favore della soluzione “sicura”: un trasloco del premier da Chigi al Quirinale. “Draghi alla quarta, Casini alla quinta, Draghi alla sesta, Mattarella alla settima”, è il pronostico di un deputato dell’ala riformista. “Il Mattarella bis sarà la soluzione di ultima istanza, se crolla tutto. Verrà in aula e ce ne dirà di ogni colore, come fece Napolitano nel 2013”.

In attesa che dal centrodestra si sblocchi l’impasse, la lotta di coscienza del Pd è tutta qui. Da una parte la tentazione di una scossa che porti al Colle un nome politico e metta in sicurezza il governo con un patto di legislatura imperniato sull’unica cosa che davvero agita le segreterie dei partiti: la riforma elettorale (altro che Pnrr). Dall’altra la consapevolezza che la candidatura di Draghi si è già messa in moto, porta la firma del Pd, piace all’Ue, agli Usa e ai mercati. E garantirebbe una soluzione per un governo che trascini al traguardo alla legislatura. Certo con margini molto ristretti per i partiti che troverebbero al Quirinale un presidente impegnato in primissima linea nella definizione del suo successore a Palazzo Chigi.

Draghi, per inerzia. Il Pd tra attesa e rassegnazione

Fra le fila del Nazareno la consapevolezza che la candidatura di Draghi si è messa in moto, porta la firma del segretario e andrà in porto per inerzia. Molti non sono entusiasti ma la strada per una soluzione politica non è priva di ostacoli

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