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Da lunedì potrebbe cambiare tutto. Almeno da quando il nodo Quirinale sarà sciolto. La variabile Draghi diventerà una costante di lungo periodo se dovesse essere eletto alla presidenza della Repubblica, ma si tratterebbe di una “nuova costante”; oppure diventerà pur sempre una costante, ma in un tempo che è difficile prevedere, di certo non più lungo di un anno, poiché nel 2023 al più tardi si andrà a rinnovare il Parlamento.

In entrambi gli scenari è lecito avere qualche dubbio sulla continuità di governo, o con un altro presidente del Consiglio, o con un presidente del Consiglio oggettivamente depotenziato, benché oggi ri-osannato dai partiti della grande maggioranza. E proprio questo supporto così smaccato al Draghi premier dovrebbe far temere che i partiti siano troppo contenti di avere la conferma di uno status quo che non è detto che faccia bene all’Italia.

La grande crescita del Pil nel 2021 ha creato una illusione: i problemi sono alle spalle. Non è vero. Parafrasando lo stesso Mario Draghi potremmo ricordare: “Una rondine non fa primavera”. Furono le parole che tra il 2009 e il 2010 l’allora governatore della Banca d’Italia amava ripetere al governo Berlusconi di fronte ai primi dati di un rimbalzo dell’economia dopo la grande crisi del 2007-2008. Me lo sentii dire anch’io, quando da presidente dell’Inps nel 2010 comunicavo i dati in flessione della cassa integrazione dopo mesi esplosivi. Una rondine non faceva primavera nel 2010 ed è difficile che la faccia nel 2022.

Non solo per Covid-Omicron che certamente porterà a far ridimensionare le previsioni di crescita, e non solo per la fiammata dell’inflazione, che per quanto duri finirà per mangiarsi un po’ dell’aumento di Pil. Una rondine potrebbe non fare primavera soprattutto per alcuni nodi strutturali non risolti. Lo ricordava in questi giorni un’analisi di Mario Baldassarri. Ci sono almeno tre riforme decisive che sono state di fatto rimandate: fisco, giustizia e Pubblica amministrazione attendono interventi definitivi che non sono stati – se non nel generoso impegno di Renato Brunetta – che abbozzati.

La permanente abitudine di rinviare le soluzioni ha contagiato il percorso di governo di Mario Draghi, strattonato e frenato da una coalizione che ha preteso il rinnovo delle decisioni (o indecisioni) dei Governi Conte – dal reddito di cittadinanza alle regole della concorrenza, fino alle pensioni altro nodo irrisolto e rinviato – senza sciogliere i nodi strutturali da cui dipende il pieno dispiegamento degli effetti del Pnrr.

La compilazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza è stato un compito eseguito dal governo, ma oggi tocca aspettarne gli effetti, che potrebbero essere persino distorcenti, se non si dovessero impiegare bene e presto i 240 miliardi promessi. Di fatto si tratta di nuovo e grande debito. Si spera che diventi debito buono, ma lo sarà solo a condizione che la crescita del Pil si mantenga robusta e oltre il 3% per i prossimi dieci anni, non per il prossimo anno. E riecco la rondine di una primavera solo annunciata.

L’Italia assorbe il 70% dei prestiti europei messi in campo. In teoria erano 750 miliardi, ma i Paesi dell’Unione hanno attinto complessivamente al di sotto delle loro opportunità, per un totale che si è fermato a 570 miliardi. Solo l’Italia ha chiesto tutto quello che poteva chiedere.

Questo comporta un profilo enormemente diverso fra i singoli Paesi in termini di debito pubblico. La scommessa che l’Italia sta facendo è semplice: lasciamo crescere il debito, basta che sia debito buono. “Se però questo debito non produrrà una crescita strutturale e permanente del 3%, il problema del rapporto debito/PIL si riporrà fra 3/4 anni in modo molto evidente” chiarisce Baldassarri nel suo studio. L’Italia cioè continuerà ad essere il Paese europeo con un rapporto debito/Pil tra i più alti della zona euro (con dubbi sulla sua sostenibilità), mentre gli altri Paesi della zona euro saranno a livelli enormemente minori.

Già dal 2023 in poi per l’Europa si prevede una crescita che rientra nella “normalità”: dal 4,7% del 2021 al 2,5%. Mentre per l’Italia si prevede addirittura il rientro a una crescita che potrebbe passare dal +6% del 2021 a un incremento atteso tra l’1 e 1,4% già nel 2024. C’è di che essere preoccupati, con o senza Draghi al Quirinale.

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