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Se l’incontro tra Mohammed bin Zayed e Recep Tayyp Erdogan è effettivamente il punto di arrivo dei contatti tra Emirati Arabi e Turchia in corso da mesi, il vertice tra l’erede al trono emiratino e il presidentissimo turco racconta anche un’evoluzione in corso nelle relazioni del Mediterraneo allargato, che passano anche da questo summit (e tagliano un’area di interesse strategico dell’Italia).

Bin Zayed ed Erdogan rappresentano due visioni di mondo, e del ruolo della politica nell’Islam, che per anni hanno segnato una spaccatura all’interno del sunnismo (l’interpretazione musulmana maggioritaria). Spaccatura che si è mossa violentemente lungo alcuni di dossier militari – come l’ultima guerra civile in Libia, dove i due Paesi sono stati su sponde opposte – e geopolitici. L’incontro di mercoledì 24 novembre segna una nuova forma pragmatica di affrontare l’ordine regionale.

Gli accordi che escono – su commercio, energia, tecnologia, finanza e investimenti per un valore totale di 10 miliardi di dollari – sono la trascrizione di questo nuovo approccio. Emirati e Turchia piuttosto che farsi guerra totale scelgono forme di contatto che passano dalla spinta allo sviluppo reciproco e regionale, e magari in futuro potrebbero arrivare a una convergenza geostrategica (per ora più distante dal flusso delle relazioni, fino a ora praticamente interrotte dal 2012).

Sulla scia della cosiddetta primavera araba, che ha abbattuto i regimi arabi sunniti in tutto il Medio Oriente, Erdogan ha iniziato a spingere un ordine regionale radicato nell’Islam politico, sostenendo i Fratelli Musulmani in Egitto e il partito islamico Ennahda in Tunisia. In questo progetto, la Turchia si è alleata strettamente con il Qatar, vicino competitivo degli Emirati Arabi Uniti, che ha anche cercato di espandere la sua influenza attraverso i movimenti islamisti.

Ankara ha costruito una narrazione secondo cui diventare riferimento della democraticità, attraverso un pensiero aderente a quello della Fratellanza, contro l’autoritarismo dei sistemi monarchici del Golfo; Abu Dhabi sentiva questo ruolo turco – finalizzato al consolidamento del potere interno, ma anche al controllo dell’opinione pubblica nella regione – come una forma di destabilizzazione. Erdogan è diventato un nemico dei regnanti del Golfo come bin Zayed perché da lui poteva passare la fine del loro potere attraverso un’emancipazione spinta velenosamente tra le collettività dei vari competitor regionali (c0me anche l’Egitto).

Il momento più basso dei rapporti è stato nel 2016, quando Erdogan subì un colpo di Stato che – secondo le accuse di Ankara – era stato organizzato anche con il sostegno degli emiratini e di figure vicine a bin Zayed. Un tentativo di rovesciare contro il Presidente turco la narrazione che lui stesso stava diffondendo. Nel 2017 c’è stata la mossa con cui i Paesi del Golfo Persico hanno posto sotto isolamento il Qatar, di cui la Turchia ha preso subito le difese. Nel 2019 la guerra in Libia, con gli emiratini sul lato della Cirenaica e (dopo qualche mese) i turchi a difesa della Tripolitania.

Era solo il 2020 quando il ministro degli Affari esteri emiratino diceva che “l’esercito turco in Qatar è una fonte di instabilità nella regione. La nostra regione non ha bisogno di protettori regionali o del ripristino di vecchi legami coloniali”. È passato un anno o poco più e tutto sembra cambiato. Erdogan governa (non senza difficoltà, ma governa); il Qatar e gli altri del Golfo si sono riconciliati; la Libia è in fase di stabilizzazione sotto un cessate il fuoco accettato dai due fronti; bin Zayed ed Erdogan si incontrano.

Gli Emirati per primi hanno avviato una profonda revisione, frutto anche di un allineamento alle volontà dettate dalla nuova Casa Bianca di Joe Biden – che a differenza del predecessore intende evitare sbilanciamenti in un regione che gli Stati Uniti continuano a voler guidare da remoto, disimpegnandosi per quanto più possibile adesso e nel futuro, con l’obiettivo di concentrare altrove gli sforzi. Abu Dhabi ha dato segnali di apertura con i qatarini (tiepidi), si è ritirato dal fronte yemenita prima condiviso con i sauditi; ha avallato la presenza turca al Forum East Med (regione in cui le tensioni si erano fatte forti negli ultimi anni); partecipa al dialogo sulla Libia; tiene contatti con l’Iran.

Erdogan ha accettato il moto regionale, sia sotto la garanzia che per quanto stramba la relazione con Washington continuerà – ma per farlo con Biden dovrà seguire determinate traiettorie – sia sotto una necessità pragmatica: la Turchia è un paese in sofferenza economica, e se vuole continuare a proiettare la propria influenza in un’areale ampio che va dall’Azerbaigian al Nordafrica, deve acconsentire a limitazioni e facilitarsi cooperazioni (più che ingaggiare battaglie per rivalità idealiste e ideologiche).

Rimangono chiaramente aree di confronto, come la Libia stessa (dalla quale nessuno dei due Paesi intende ritirarsi senza successi) o come il Corno d’Africa: Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia, Gibuti sono tutti territori in cui la penetrazione turca si sovrappone alla costruzione di interessi da parte degli emiratini. Possibile che l’approccio pragmatico costruisca comunque un terreno di contatto comune?

La grand strategy di bin Zayed, che passa dalla diversificazione dalle ricchezze legate alle fonti energetiche fossili (ricchezze che si svaluteranno con la transizione verde), è quella di costruire attorno agli Emirati un hub globale del commercio tra Est e Ovest del Mondo – e davanti alla crisi delle supply chain legata alla pandemia, l’erede al trono emiratino non può che essersi convinto ancora di più della bontà delle sue idee. Idee che passano anche dalla promozione di commerci e logistiche intra-regionali, di cui Abu Dhabi sarebbe comunque fulcro.

Coinvolgere la Turchia è un passaggio automatico, anche per sfruttare una sorta di isolamento sotto cui è finito Erdogan per via delle svariate problematiche che si trova ad affrontare. Per le sue debolezze, Ankara è diventata attrattiva agli occhi di Abu Dhabi. Non c’è nessun obiettivo se non quello tattico dietro a questi avvicinamenti, ma il pragmatismo vince in questa fase: non a caso Erdogan ha stoppato parte della narrazione anti-status-quo sunnita, e ha dato segnali di apertura nei confronti della Grecia (parte di un allineamento mediterraneo con gli Emirati, e nemico turco), dell’Egitto (simbolo dell’autoritarismo che ha schiacciato la Fratellanza) e di Israele (che è al centro di un’intesa strategica con gli Emirati, gli Accordi di Abramo voluti dagli Usa).

Avvicinamenti tattici tra Emirati e Turchia

Abu Dhabi e Ankara si parlano, si accordano e si mettono in scia al flusso di stabilizzazione e distensione regionale. Rimangono punti di attrito, differenze di visioni di carattere strategico, ma al momento la tattica chiama al pragmatismo

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