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Un microchip su tre fabbricati in Europa porta una scritta: made in Germany. Bisogna partire da questo dato riportato dal Financial Times per raccontare la più delicata partita dell’autonomia strategica europea. Autonomia nei fatti, e non solo a parole, significa accorciare il gap che separa il Vecchio continente da Cina e Stati Uniti.

I microchip, i piccoli “cervelli” nanometrici che muovono l’intera industria digitale, dall’automotive all’hi-tech, sono l’oro del nuovo decennio. Complice una pandemia che ha terremotato le supply chain e ha inaugurato una corsa ad accaparrarsi i siti di produzione.

L’Europa resta fanalino di coda. Oggi produce il 10% dei microchip globali, vuole arrivare al 20% entro il 2030. Tra il dire e il fare ci sono però tante variabili. Per produrre i chip servono investimenti di scala – nell’ordine di decine di miliardi di euro – che non possono prescindere da un sostegno dello Stato. Ma una corsa ai sussidi – avvisano da Bruxelles – va contro la tutela del libero mercato prevista dai Trattati.

In Ue c’è chi oggi si trova non uno, ma due passi avanti nella gara per i semiconduttori. La Germania, ora passata nelle mani del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, tira il carro dell’industria europea. Merito della “Silicon Saxony” – così l’hanno ribattezzata all’estero – e cioè la locomotiva del comparto tech tedesco. Eccola, l’“Europa a più velocità”. Lo ha capito la Commissione Ue, che infatti ora punta tutto su Berlino per recuperare il ritardo con Cina e Usa nella produzione di microchip.

Sul dossier c’è Thierry Breton, il commissario francese al Mercato interno con un passato alla guida di Orange e Atos: a metà novembre ha incontrato i leader dell’industria a Dresda, con tanto di imprimatur ufficiale, la Sassonia “è estremamente importante per il posto dell’Europa sul palcoscenico globale”. I numeri sembrano darne conferma. Sono 70.000 gli impiegati nell’industria dei chip nella Silicon Saxony, e il governo vuole portarli a 100mila nei prossimi anni. L’impegno dell’ex ministro delle Finanze Peter Altmaier è di investire nel settore 3 miliardi di euro dall’Ipcei lanciato un anno fa. Da vedere se il successore Christian Lindner, capo dei Liberali assai allergico agli investimenti pubblici, deciderà di portarlo avanti.

Ma intanto è iniziata la processione dei grandi player globali, assegni alla mano, per aprire siti di produzione di chip in Germania. Sono queste le intenzioni di Intel, il colosso americano corteggiato da Francia e Italia che alla fine sembra aver deciso: il maxi-impianto da 10 miliardi di dollari l’anno nascerà con ogni probabilità a Dresda. La Silicon Saxony, appunto. In fila c’è anche Tsmc, il più grande produttore al mondo con sede a Taiwan, che secondo indiscrezioni di stampa vuole aprire un centro di produzione in Germania.

Tanti altri hanno fatto la stessa scelta anni fa. Oltre alla tedesca Infineon, che ha due impianti di produzione di wafer in silicio da 200 e 300 millimetri, a Dresda c’è la californiense GlobalFoundries, terza fonderia di semiconduttori al mondo.

Ovviamente c’è chip e chip. Nella sfida strategica con la Cina, sono i più piccoli, sotto i 10 nanometri, a fare la differenza. Qui, spiega un recente rapporto Kearney (commissionato da Intel) l’Europa arranca. “Oggi l’elettronica nel settore dei computer e delle comunicazioni copre il 70% del consumo di semiconduttori dell’Ue, mentre i chip di ultima generazione solo il 20%”.

In entrambi i casi, tutte le strade dell’industria europea portano a Berlino. Un memo eloquente per chi, a Roma, si trova a decidere il destino di più di 200 miliardi di euro del Recovery Fund europeo. Il tempo per tornare in partita sta per scadere.

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