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Dobbiamo essere grati ad Angelo Lucarella e Luca Conserva per questo libro in forma di dialogo platonico, nel senso classico dell’aspirazione ad una pedagogia civile, che altro non è se non una grande dichiarazione d’amore per la Costituzione italiana.

Non c’è parola nel nostro vocabolario che possa dichiararsi altrettanto polisemica come il lemma “costituzione”. Per restare solo nel recinto del diritto nelle sue più elementari nozioni ci viene da pensare ad un ché di solenne, di attraversato da valori altissimi, di Carta delle regole ultime, attorno a cui si organizza una comunità statale. Ma le necessarie regole di convivenza civile, i valori che le originano, per poter funzionare devono essere accettate ed accolte dai cittadini. Devono farsi idem sentire, sentimento collettivo, senso di appartenenza ad un destino comune.

Devono, innanzitutto, essere narrate per consentire il rispecchiamento di ognuno in una sorta di etica costituzionale. E questo è un primo forte movente del dialogo dei due autori, impegnati in una impresa affascinante, perché non è privo di un ché di epico il riconnettere, in questa stagione cinica, la comunità dei cittadini alla politica, rappresentata soventemente dai media come un disvalore.

Come si costruiscono, allora, valori condivisi in un Paese che sembra sempre di più attraversato da profonde faglie che lo sezionano e lo feriscono come una terra colpita dal terremoto? Già, perché quest’Italia con un piede nell’entropia esistenziale e un altro nella rabbia senza requie, ha perso da tempo il senso di una condivisione. Quel sottoprodotto di “italianismo” che passa oggi il convento, infatti, sta appiccicato a simboli stropicciati di sovranismo prêt–à–porter, talvolta di revancismo protestatario che si veste di urlo alla libertà e altre ancora di antieuropeismo.

Ma non sono valori: sono solo elementi che ornano lo storytelling predisposto da un plotoncino di professionisti della comunicazione a beneficio di qualche capopopolo in perenne campagna elettorale. I valori condivisi sono qualcosa d’altro e di più profondo. L’appartenenza ad una comunità nazionale che sa riconoscersi nella Costituzione come regola comune, ma anche come esito alto di un processo storico complesso e doloroso, che seppe portare il Paese dal buio di una dittatura e di una guerra devastante alla luce di conquiste democratiche straordinarie e sperabilmente irrevocabili.

Dunque la Costituzione è il grumo dei valori condivisi, quelli su cui è costruita la convivenza ed anche la civiltà politica del nostro Paese, ancor più nella stagione che si compiace di definirsi post–ideologica. È questo il cuore del libro Amore e Politica, è questo il succo del dialogo platonico tra i due autori. Ritornare ad insegnarla nelle scuole — chiamatela (come fece il ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro nel ’58) educazione civica, chiamatela educazione alla cittadinanza, chiamatela come vi pare — è cosa buona, giusta e urgente.

Perché non si può godere della cittadinanza senza comprenderne il senso: fa sorridere la ricorrente richiesta che viene posta agli immigrati che chiedono la cittadinanza di conoscere le nostre leggi e la nostra lingua, quando sull’argomento Costituzione (talvolta anche grammatica italiana) siamo messi così male. Ma nell’immenso sentimento smosso dal libro gli autori mi permetteranno di collocare anche un altro concetto. Forse un corollario dell’amore per la politica che, per acquistare senso, deve essere indirizzato ad un oggetto concreto: la comunità degli italiani e la terra che li ospita.

Dunque l’Italia e la sua bellezza. Un insegnamento obbligatorio che andrebbe prescritto per condividere valori di un’identità italiana riguarda la sfera della spesso inutilmente evocata “bellezza”. L’Italia è l’idea stessa della cultura occidentale, dell’estetica sublime, dell’opera d’arte capace di emozionare a tal punto da provocare una sindrome dal nome romanticissimo e letterario di Stendhal. Lo è non per un segmento temporale soltanto, ma per i suoi millenni di storia, dai popoli preromani al Novecento ed anche ad oggi. Ogni pezzetto di territorio ha le sue meraviglie, le sue storie, le sue architetture, le sue pinacoteche. Ed ogni storia è miniera di ricchezza. Sconosciuta ai più.

Ecco: bisognerebbe insegnare storia dell’arte nelle scuole dell’obbligo, focalizzando anche la storia del territorio. Ma come facciamo a raccontare la grande bellezza se non sappiamo neanche che cosa c’è nel museo della nostra città? Come facciamo ad improvvisarci imprenditori di estetica italiana se non sappiamo balbettare il senso del nostro essere nati qui e non in un qualsiasi altro posto nel mondo? Ne sono certo, oltre al sempre più tiepido friccicore dell’inno nazionale prima delle partite della nazionale di calcio, il senso comune di un’identità collettiva degli italiani sta proprio qui, in questa coppia smarrita di valori, la Costituzione e la storia dell’arte. Riportiamole a scuola: qualcosa di buono potrebbe accadere. Forse anche una nuova sensibilità alla convivenza. Sicuramente, però, fanno bene, molto bene, i libri come questo di Lucarella e Conserva: quando competenza e passione civile si incontrano per produrre un gesto di assoluta gratuità c’è già politica. Quella buona. Quella da amare.

L'Italia e la sua bellezza, dall'arte alla Costituzione. Scrive Pisicchio

Il senso comune di un’identità collettiva degli italiani sta proprio nella Costituzione e nella storia dell’arte. Riportiamole a scuola: qualcosa di buono potrebbe accadere. Pubblichiamo la prefazione del prof. Pino Pisicchio del volume “Amore e Politica. Discorso sulla costituzione e sulla dignità dell’uomo”, Aracne editore, co-firmato da Angelo Lucarella e Luca Conserva

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