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Non è semplice formulare un giudizio netto sul fatto che alcune testate italiane abbiano ipotizzato l’acquisto o l’utilizzo di strumenti come quelli di Paragon da parte dei servizi di intelligence nazionali. È, però, comprensibile che i media si pongano domande su possibili abusi o utilizzi borderline di sistemi di sorveglianza; d’altra parte, se tali accuse sono formulate senza evidenze concrete, rischiano di sembrare più speculazioni che denunce fondate.

Non è un segreto che quasi tutte le agenzie di intelligence mondiali si dotino di strumenti tecnologici avanzati per prevenire minacce terroristiche o criminalità organizzata. Tuttavia, un conto è che un servizio acquisti o testi tecnologie di sorveglianza — cosa plausibile a livello internazionale — un altro è l’uso illecito o abusivo di tali strumenti contro giornalisti, organizzazioni non governative o oppositori politici. Se un giornale afferma che i servizi italiani utilizzano o hanno utilizzato Paragon contro giornalisti o attivisti, dovrebbe portare prove solide, come documenti, testimonianze verificate o analisi forensi di dispositivi compromessi. Accuse generiche o basate solo su “indiscrezioni” rischiano invece di confondere l’opinione pubblica e alimentare sospetti infondati.

I servizi segreti, per loro stessa natura, operano in modo poco trasparente a causa dell’esigenza di segretezza, e ciò li rende spesso oggetto di teorie o supposizioni. Quando vengono alla luce nuove tecnologie come Pegasus, Predator o Paragon, è quasi inevitabile che alcuni mezzi di informazione si chiedano se anche i “nostri servizi” possano essere coinvolti, magari in collaborazione con altre intelligence o perché interessati a dotarsi di strumenti in linea con quelli utilizzati da molti Paesi.

Esistono comunque casi ben documentati di governi e servizi di intelligence esteri che utilizzano spyware per monitorare, o tentare di monitorare, giornalisti, attivisti e membri di Ong di vari Paesi, inclusa l’Italia. Le inchieste più note sono emerse con il “Pegasus Project” (2021), che ha mostrato come molti governi si siano dotati di strumenti prodotti dalla società israeliana Nso Group per condurre operazioni di sorveglianza potenzialmente lesive dei diritti fondamentali. In questo scenario rientrano anche altre aziende specializzate, come Cytrox con Predator, FinFisher, l’italiana Hacking Team (che in passato sviluppava il Remote Control System) e Paragon, un’ulteriore realtà israeliana fondata da ex membri dell’intelligence. Non è sempre chiaro quali governi o agenzie acquistino questi software, né contro quali target vengano impiegati, ma la domanda di simili prodotti è innegabile.

Regimi autoritari hanno spesso mostrato di voler controllare la libertà di espressione affidandosi a tecnologie di sorveglianza avanzate. Report di organizzazioni come Citizen Lab e Amnesty International hanno documentato casi in Medio Oriente, Africa e Asia. Tuttavia, non mancano episodi in cui servizi di Paesi democratici siano stati accusati di utilizzare spyware contro obiettivi interni o esterni, come è successo nel caso ungherese o in Spagna a proposito della questione catalana. Non è raro che intelligence straniere possano mirare a giornalisti di altri Paesi, specie se questi svolgono inchieste su temi sensibili (corruzione, traffici illeciti, scandali). Di conseguenza, un giornalista italiano o un membro di ONG italiana che lavori su dossier scottanti può diventare un obiettivo di sorveglianza per vari governi.

Prove inoppugnabili dell’eventuale spionaggio di specifici cittadini italiani rimangono limitate, perché tali attività sono coperte da segreto. Organizzazioni come Citizen Lab, Amnesty International e consorzi giornalistici (Forbidden Stories, ad esempio) hanno rivelato molti casi di sorveglianza, spesso senza poter rivelare tutte le identità delle persone coinvolte. Non si può quindi escludere che giornalisti italiani o membri di Ong attive in aree geopolitiche delicate possano essere stati (o possano in futuro essere) bersagli di governi stranieri.

Vi sono diverse ragioni che rendono giornalisti e Ong appetibili dal punto di vista della sorveglianza. I primi possono avere accesso a informazioni sensibili, documenti o testimonianze, mentre le seconde, grazie alle loro reti di finanziatori e attivisti globali, possiedono contatti e progetti di advocacy che possono interessare regimi o governi che desiderino controllare la narrativa pubblica o insabbiare certe rivelazioni.

L’uso di spyware è ormai un fenomeno globale in crescita e sempre più sofisticato. Le principali aziende tecnologiche, come Apple e Google, lavorano continuamente per correggere le vulnerabilità che permettono questi attacchi, ma è una sfida complessa e in costante evoluzione. Non si può escludere che, tra i numerosi obiettivi possibili, rientrino anche italiani, specie se operano su dossier che toccano interessi importanti di governi stranieri. Attribuire con precisione la responsabilità di un attacco, poi, è estremamente complicato, perché la filiera di produzione e vendita dello spyware è opaca e i governi negano o classificano le proprie operazioni.

In definitiva, non sembra strano che alcuni media si interroghino sull’eventuale coinvolgimento dei servizi italiani, anche se lanciare accuse dirette senza prove concrete rischia di essere controproducente. È comunque innegabile che esista un mercato globale dello spyware e che molti governi considerino utile controllare, tramite questi sistemi, sia i propri cittadini sia cittadini stranieri considerati “di interesse”. Nel momento in cui giornalisti o Ong italiani lavorano su temi geopoliticamente sensibili, il rischio di essere sorvegliati non può essere escluso, sebbene per confermarlo servano riscontri ben più solidi di semplici illazioni o sospetti.

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