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Commentando un sondaggio dell’Ipsos sulle intenzioni di voto Dario Di Vico ha tratto una considerazione che in un’epoca non lontana avrebbe scoperto le tombe e sollevato i morti: “Ma veniamo alle professioni e qui il dato che balza agli occhi è il definitivo divorzio tra Pd e operai. Tra le tute blu il consenso dei lettiani è dell’8,2% contro il 25,5% tra gli imprenditori, il 19,6% tra i lavoratori autonomi, il 37,1% tra i pensionati e il 30,4% tra gli studenti. Volendo tirare una riga. tra tutti i punti riportati ne viene fuori un’immagine, in estrema sintesi, di un partito presidiato dai ceti dirigenti e dai pensionati’’.

Dove sono finiti i lavoratori o ancor meglio gli operai? Bisogna andare a suonare al citofono di Matteo Salvini. Infatti, come scrive sempre Di Vico, per trovare “la constituency leghista più consistente bisogna isolare gli elettori operai: tra le tute blu la Lega arriva al 27,8%, nove punti in più di quanto raccolga tra gli imprenditori e otto in più rispetto ai lavoratori autonomi’’.

In definitiva – sottolinea l’editorialista del Corriere della sera – troviamo nei dati dell’Ipsos la conferma che la forza della Lega rimane ancorata al suo nocciolo duro nordista con l’aggiunta dello straordinario consenso operaio’’ E aggiunge: “Per avere un termine di paragone, che ribalta totalmente lo schema novecentesco, il partito di Salvini tra le tute blu gode del doppio dei consensi di tutte le sinistre sommate tra di loro (Pd, Sinistra Italiana, Articolo Uno e Italia Viva): 27,8 contro 12,4 per cento’’.

Troviamo allora nei dati dell’Ipsos la conferma che la forza della Lega rimane ancorata al suonocciolo duro nordista con l’aggiunta dello straordinario consenso operaio.

Per avere un termine di paragone, che ribalta totalmente lo schema novecentesco, il partito di Salvini tra le tute blu gode del doppio dei consensi di tutte le sinistre sommate tra di loro (Pd, Sinistra Italiana, Articolo Uno e Italia Viva): 27,8 contro 12,4 per cento’’.

Questa inclinazione verso il Carroccio del voto operaio non è una novità. Ma sorprende l’incremento del consenso nel giro di pochi anni e soprattutto il consolidamento che ne fa una base sociale pressoché stabile.

Del resto, dopo le elezioni del 4 marzo 2018 la segreteria della Cgil (magari con metodi di rilevazione meno raffinati di quelli di Nando Pagnoncelli) promosse un sondaggio tra i propri iscritti da cui risultò che più del 30% aveva votato per il M5S e il 18% per la Lega.

Certo i dati dell’Ipsos di oggi non sono sovrapponibili con quelli della Cgil del 2018 perché le platee sono differenti: un conto sono gli iscritti a un sindacato un altro una particolare categoria di lavoratori. Ma la sorpresa – ad avviso di chi scrive – viene da un altro dato: la sinistra con tutte le sue componenti, tra gli operai viene sconfitta anche da FdI che si assicura il 17,7%.

Queste statistiche hanno riaperto per qualche giorno un dibattito che ricorda il giochetto che si faceva da bambini chiedendo al compagno di banco se, a suo parere, fosse nato prima l’uovo o la gallina. In sostanza, è la sinistra che ha tradito la classe operaia oppure è vero il contrario?

Questa drammatica autoanalisi (che appartiene allo stesso filone di indagine della natura del voto che si raccoglie nei quartieri ZTL delle città rispetto a quello delle periferie) si basa su di un presupposto assunto come dogma, mentre si tratta solo di una contingenza storica legata ad un particolare sviluppo dell’economia e al corrispondente assetto sociale.

In verità, i tradizionali e secolari confini tra destra e sinistra o non esistono più o non sono più in grado di evitare la contaminazione delle idee con quelle del populismo.

Spesso le classi lavoratrici sono diventate la nuova base elettorale delle forze populiste, le quali promettono – nell’ambito di politiche isolazioniste, protezioniste e sostanzialmente xenofobe – il ripristino di quelle tutele e garanzie, messe in crisi dai processi economici e sociali connessi alla globalizzazione.

La destra oggi in Italia non può più essere rappresentata con le caricature di Scalarini. La sfida planetaria aperta tra internazionalizzazione dell’economia, libertà ed integrazione dei mercati, da un lato, e neoprotezionismo, dall’altro, nel vecchio continente si traduce in un confronto decisivo tra europeisti e ‘’sovranisti’’.

Questo scontro non ha soltanto un profilo di carattere istituzionale e culturale, ma si riversa immancabilmente sulle politiche economiche e del lavoro, in cui è più marcata e significativa la convergenza dei populismi di destra e di sinistra, al punto da influire anche sulle scelte dei partiti ‘’storici’’.

In sostanza, è la demagogia a tenere banco, contro l’equilibrio dei bilanci pubblici, la sostenibilità dei sistemi diwelfare: quelle condizioni che dovrebbero essere le premesse irrinunciabili della stabilità edella crescita. Le politiche tendono a confondersi.

Le posizioni dei ‘’sovranisti’’ italiani sono note: mescolano tra loro, in una sintesi devastante, isolazionismo politico e demagogiasociale. Sono loro che si presentano come i difensori dei ceti sociali che vedono messe in discussione quelle prerogative che sembravano acquisite per sempre.

In fondo il caso italiano non è diverso da quanto succede in tutti i paesi sviluppati ai tempi della globalizzazione. Sono stati vasti settori di classe operaia a votare Donald Trump negli Usa, a scegliere la Brexitin GB, a sostenere Marine Le Pen in Francia.

Quanto all’Italia, alle battaglie di retroguardia, nessuna esclusa, che conducono i sindacati difficilmente non manca mai il sostegno della Lega, che riesce ad essere più convincente delle piccole formazioni a sinistra del Pd, nonostante che anch’esse agitino i medesimi temi con identica demagogia. Poi anche lasinistra ha tanto da discolparsi.

“La sinistra deve tornare ad avere un messaggio ideale, anzi direiproprio ideologico” ha affermato Massimo D’Alema in una sua recente intervista. Ma non c’è già l’identità di genere al posto di quella di classe? Non basta Zan? È proprio necessario tornare a Marx?

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