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Io non so cos’ha davvero in testa Silvio Berlusconi e non so se è vero che crede all’ipotesi di succedere a Sergio Mattarella.

Non so se ci spera (molti dicono di sì), non so se ci sta lavorando (molti dicono di sì) e non so qual è il vero livello di condivisione sul tema raggiunto con i suoi alleati.

So però almeno due cose su cui possiamo convenire un po’ tutti, comunque la si pensi in materia.

La prima è che non potrà essere una candidatura da “larghe intese”, poiché non è sinceramente credibile immaginare una convergenza ufficiale sul Cavaliere da parte del Pd di Enrico Letta né da parte di quella variegata ed imperscrutabile galassia chiamata M5S, peraltro faticosamente tenuta insieme da Giuseppe Conte.

Poi c’è la seconda consapevolezza, quella attraverso la quale immaginiamo la grande ostilità che l’ipotesi produrrebbe nell’ampio ed influente mondo “progressista”, un mondo capace di coinvolgere (dentro e fuori l’Italia) soggetti di peso anche ben oltre i confini della politica.

Acquisite queste certezze, possiamo però affermare con una certa serenità che ben poco importa a Berlusconi di tutto ciò: altro non è che lo schieramento dei suoi nemici di sempre, quelli con i quali se le dà di santa ragione da quattro decenni almeno.

Siccome però per arrivare al Quirinale occorre un voto a maggioranza del Parlamento, ecco che arriviamo al nocciolo della questione, che sul piano politico è semplice semplice: Berlusconi può “salire” al Colle se succedono due fatti imprescindibili e necessari contemporaneamente: 1) deve votare per lui l’intera coalizione di destra-centro fino all’ultimo Grande Elettore; 2) servono una cinquantina di voti “nuovi”.

Cominciamo dal punto due, quello politicamente meno sensibile. Qui possiamo dire che deve vedersela proprio il Cavaliere in persona, trovando questi voti attraverso alleanze politiche (qualcuno pensa ai parlamentari di Italia Viva, considerando il voto sulla “legge Zan” al Senato una sorta di prova generale) o con trattative più individuali, tipo quelle necessarie per provare ad agganciare un certo numero di “anime perse” nei gruppi misti dei due rami del Parlamento.

Assai più delicata invece è la questione interna alla coalizione, vero punto di analisi cui intendo dedicare questo articolo.

Qui infatti le cose sono ben chiare per le prime tre votazioni, quelle in cui serve una maggioranza qualificata per eleggere il Capo dello Stato: l’area di destra-centro può votare Berlusconi come candidato “simbolo” ben sapendo però che non ha possibilità di essere eletto (ragione per cui non avrebbe neppure molto senso votarlo in verità, se non per mostrare una certa forza numerica tale da impressionare gli indecisi).

Le cose però si fanno serie a partire dalla quarta votazione, anzi, per dirla proprio tutta, esattamente in quella occasione: lì si vota a maggioranza semplice degli aventi diritto.

Quindi servono tutti i voti di Forza Italia, tutti quelli di Brugnaro e Toti, tutti quelli di Fratelli d’Italia e tutti quelli della Lega, a cui aggiungere alcune decine di schede da pescare fuori dal recinto “destra-centro”, come abbiamo chiarito poche righe sopra.

Siccome però si vota a scrutinio segreto (che però è un po’ meno tale da quando esistono i telefonini che fanno foto molto nitide), ecco che quella votazione può assumere le caratteristiche del trionfo (per la prima volta da destra si elegge il Capo dello Stato) o della débâcle, qualora si arrivi a provare l’opzione Berlusconi facendola naufragare nelle tradizionali ceste di vimini (vengono poste all’uscita delle cabine in legno collocate tra i banchi del governo nell’aula di Montecitorio).

Voglio cioè dire che la coalizione recentemente riunita a Villa Grande sull’Appia Antica è già attraversata di suo da tensioni forti, come si è reso evidente nella campagna elettorale per i comuni di quest’autunno, al punto che potrebbe non reggere ad un insuccesso figlio di un voto segreto, con tutte le velenose interpretazioni che inevitabilmente finirebbe per generare.

Ora, la natura della eventuale candidatura del Cavaliere potrebbe prendere forme nuove e suggestive, come quella indicata da Gianfranco Rotondi (due anni al Quirinale e poi via), ma un dato è certo: Meloni e Salvini devono pensarci bene prima di fare quel passo.

Se Berlusconi è il candidato deve uscire dalle urne raccogliendo (come minimo) tutti i voti disponibili sommando gli elettori già dalla sua parte.

In caso contrario ne uscirebbe una coalizione da aggiustare un minuto dopo il voto.

E non sarebbe un lavoro da fare con i cerotti.

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