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L’Italia ha una grande sfida davanti, quella della transizione ambientale che, ha detto ieri Anna Finocchiaro introducendo il rapporto di Italiadecide sulla transizione ecologica, ha bisogno di una rinnovata relazione di fiducia tra istituzioni e tra pubblico e privato. Alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la presidente dell’associazione ha chiarito la necessità di un nuovo sistema di armonizzazione dei diversi livelli dello Stato.

Formiche.net l’ha raggiunta per approfondire alcuni aspetti chiave del rapporto, con uno sguardo anche all’Europa (e perché no, al Quirinale…).

Come agire, praticamente, nella direzione di una maggiore fiducia e armonia tra istituzioni e livelli di governo?

Dobbiamo partire dalla consapevolezza che le politiche ambientali sono politiche per loro natura trasversali e dunque per armonizzare l’obiettivo della transizione ecologica e i suoi obiettivi sul territorio serve una integrazione molto stretta tra indirizzi di politiche pubbliche a livello nazionale, regionale e locale. Soprattutto considerando che le risorse del Pnrr destinate ai territori, ai comuni, passano attraverso le regioni. Questo complesso sistema di armonizzazione delle politiche per raggiungere gli obiettivi ambientali ha bisogno di un modello di relazione tra i poteri che non sia conflittuale e che non sia neanche egoistico.

Pensa a un modello specifico?

Il nostro sistema dal punto di vista del funzionamento istituzionale, come peraltro si è dimostrato con la conflittualità a cui assistiamo continuamente, dovrebbe passare da un modello gerarchico – cioè il livello statale, regionale e locale – a un modello di cooperazione rispetto a un fine, e dunque a un modello a rete. Chi viene chiamato a interloquire – le imprese che devono produrre senza inquinare, i cittadini chiamati a comportamenti attivi come la raccolta dei rifiuti, solo per fare due esempi – deve sapere qual è la rete istituzionale a cui fare riferimento. Gli stessi comuni devono sapere a livello di governo nazionale a chi rivolgersi.

Cosa ha insegnato la crisi del covid sul rapporto tra i diversi livelli dello Stato, da quello centrale all’ascolto dei comuni?

Insegna che tempo per i conflitti non ne abbiamo più, abbiamo tempo solo per i risultati. Per farlo, scordiamoci l’invocazione delle grandi riforme e l’uso del conflitto. Tentiamo di lavorare mediante accordi e intese, ossia nuove forme di relazione tra i diversi poteri e i governi (nazionale, regionale e locale). A guidarci deve essere un principio costituzionale come la cooperazione, rispettosa di ciascuno, paritaria. Questo principio deve sostituire il modello gerarchico verticale che abbiamo conosciuto fino ad ora, in cui il destinatario di un comando deve solo eseguire, e in cui c’è una rottura netta ogni volta che finisce la mia prerogativa e inizia la tua.

Nuova fiducia e coesione interna, ma l’Italia deve guardare anche fuori dai suoi confini, ossia all’Europa. Nel 2022 si riprenderà a discutere il Patto di Stabilità e regole di Bilancio dell’Unione. Che errori non può commettere, l’Italia, in questo frangente?

Noi dobbiamo avere un’idea nuova dell’economicità della spesa. Una volta era il dato contabile, quello che sostiene il Patto di Stabilità, peraltro, per cui devi stare dentro i parametri che conosciamo. La pandemia, la crisi, e l’adozione di strumenti come il Next generation Eu ci obbligano, e già in questo senso ha determinato l’Europa, a una concezione della spesa orientata invece al raggiungimento di risultati specifici in una strategia che non può che essere di medio-lungo periodo. L’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica, la riconversione delle fonti energetiche, insomma, non è operazione che possa compiersi con un pezzo di carta se non vive nella realtà delle aziende, dei governi e dei comportamenti dei cittadini.

Insomma, meno rigidità nei parametri europei sulla valutazione della spesa…

Sì, meno rigidità rispetto al parametro, e più un orientarsi rispetto ai grandi obiettivi che la stessa Europa si è data. Il che non significa scialacquare, anzi, forse il compito è ancora più arduo.

Ecco, però in Europa la discussione sul Patto di Stabilità non sarà semplice, non tutti vogliono mettere i parametri di Maastricht in discussione, anzi c’è chi preme per reintrodurli dopo la sospensione. L’Italia come può avere un ruolo decisivo in questa discussione? Può permettersi l’instabilità?

La tenuta dei governi, la stabilità, è un grande elemento di forza dei Paesi, soprattutto quando si è impegnati in un’opera di così radicale trasformazione dei modelli di sviluppo, dei modi del produrre, dei modi di abitare. Poi c’è ovviamente il gioco della politica, che però mi pare fino ad ora, seppure con scaramucce varie, stia dimostrando di capire che la stabilità di governo con l’autorevolezza internazionale di cui è portatore è molto importante. L’Italia, su questo, ha due frecce al suo arco.

Quali?

La prima è quella di dimostrare che l’allentamento del Patto di Stabilità significa in concreto cambiamenti veri e seri del nostro sistema e che quindi non sono fondi buttati, che li sappiamo utilizzare e come si dice in gergo sappiamo mettere a terra queste risorse e questi progetti.

La seconda?

La seconda è avviare una discussione sul fatto che la grande trasformazione interessa il mondo, non soltanto l’Europa, e come tutte le grandi trasformazioni non si affronta da un punto di vista contabilistico. La valutazione dell’utilizzo delle risorse deve essere orientata da una visione strategica che riguardi il cambiamento e l’adeguamento complessivo dell’Europa a questo cambiamento già in atto che ha come punti essenziali la transizione ambientale e digitale.

Le forze politiche italiane sono alle prese con un’altra grande prova: l’elezione del Capo dello Stato. Pensa sarà possibile una ampia convergenza su un nome?

Io credo che debbano fare di tutto perché esista questa convergenza e perché il Presidente della Repubblica venga eletto rapidamente e con un grande concorso, anche oltre la maggioranza prescritta dalla Costituzione. Questo sarebbe un altro grande segnale di forza del nostro sistema Paese e ci aiuterebbe in tutti i campi, compreso il terreno delle trattative di cui parlavamo prima, quelle che riguardano le regole europee che si discuteranno prossimamente.

Nel totonomi viene spesso scritto “una donna”, accanto a una lista di nomi e cognomi di uomini. Una donna vale l’altra oppure no?

Le donne hanno nomi e cognomi, storie, competenze proprie, talenti propri, abilità come li hanno i diversi candidati uomini. Dire “una donna” è un po’ buttare la palla in tribuna.

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