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In Italia l’iper-burocrazia è un’erbaccia difficile da sradicare. A volte può fare danni, anche gravi. Lo sa bene, fra gli altri, chi dedica la vita alla lotta alla criminalità organizzata e vuole colpirla nel punto più debole: il portafoglio. Fu una delle tante intuizioni di Giovanni Falcone a dar vita, trent’anni fa, a una dottrina italiana sui beni confiscati alla mafia divenuta negli anni esempio per gli altri Paesi europei.

Trent’anni dopo, l’operazione di confisca dei beni mafiosi ha assunto dimensioni da vertigine. Un patrimonio di quasi 18mila immobili e circa tremila aziende sottratte alla criminalità, potenzialmente pronte a tornare al servizio della società, in attesa di una nuova destinazione (legale). A questi si aggiunge un gruzzolo da 3,6 miliardi di euro di risorse liquide confluite nel Fondo Unico Giustizia.

Sono numeri che fanno la differenza: basta chiederlo alle decine di organizzazioni no-profit che si dedicano a queste missioni, su tutte Libera, nata grazie al carisma di Don Luigi Ciotti. Peccato che un florilegio di norme e intoppi burocratici impedisca di sfruttare questo vero e proprio tesoro dello Stato a fin di bene. Il rischio è che il patrimonio rimanga sospeso in un limbo. O, peggio, nelle mani dei malavitosi.

Dalla Sicilia il mese scorso è partito un allarme eloquente. Arriva dall’ultimo rapporto consegnato dall’ufficio della Regione siciliana che monitora i beni confiscati a Cosa Nostra: soltanto il 45% ritorna alla collettività. Il resto resta lì, nelle mani di mafiosi e abusivi.

Le cause, si diceva, sono diverse. Da una parte i gangli di una burocrazia soffocante, che impedisce di liberare i beni in tempi utili per riconvertirli a scopi sociali. Una lezione da stampare per la stagione che verrà: nel 2022 dovranno essere messi a terra i miliardi del Recovery Fund e il timore che finiscano impigliati nelle ragnatele della burocrazia italiana attanaglia non da oggi chi, a Bruxelles, ha dato credito all’Italia. Dall’altra c’è spesso l’impreparazione degli amministratori locali, sparsi tra i 2176 comuni destinatari dei beni confiscati.

A entrambi i problemi vuole dare soluzione una proposta partita dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’ex Cinque Stelle Nicola Morra. Nasce da un’inchiesta lunga due anni del IX Comitato per l’analisi delle procedure di gestione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, guidato dal deputato della Lega Erik Pretto, e una volta approvata dal Parlamento può davvero mettere fine all’inerzia di cui si beano i proprietari mafiosi rimasti illesi. Parola d’ordine: semplificazione.

La prima, vera novità contenuta nel documento è infatti un “vademecum” per gli enti locali. Obiettivo: aiutare sindaci e amministratori locali che, come ha più volte sottolineato l’Anci, semplicemente non sono a conoscenza dei fondi e dei beni confiscati utilizzabili. Un guaio riconosciuto dalla stessa ministra della Giustizia Marta Cartabia in audizione in commissione: “Sembra incredibile, ma mancano alcuni elementi importanti a livello conoscitivo. Abbiamo pochi dati sul valore effettivo dei beni e mancano i dati sui sequestri penali”.

L’idea al centro della relazione è di ridare centralità ai comuni nel procedimento di destinazione del patrimonio confiscato alle mafie. Da loro, prima ancora che dal terzo settore, dovrà passare l’assegnazione di fondi e immobili.

Ma la lista è lunga: tra le altre misure, la proposta include “maggiori e più tempestive tutele per i lavoratori e per i creditori di buona fede grazie alla prosecuzione dell’attività aziendale” e l’ “ampliamento dell’ambito applicativo delle misure di prevenzione alternative alla confisca e rimedi alle « morti bianche » delle aziende colpite da interdittiva antimafia”.

Il provvedimento deve ancora passare il vaglio dell’aula. Ma intanto è stato fatto un passo avanti non banale, spiega Pretto, che ha seguito in prima linea fin dall’inizio i lavori dell’inchiesta: “Da un utilizzo efficiente delle risorse territoriali e dal coinvolgimento delle comunità possono nascere esperienze virtuose di reimpiego dei beni sottratti alle organizzazioni malavitose, che diventano quindi un potenziale volano di sviluppo”.

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