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Nelle ultime settimane l’attenzione dei media statunitensi si è rivolta, con una certa costanza, verso le possibili minacce d’invasione dell’Ucraina da parte russa. Notizie rilanciate più volte da varie testate hanno delineato scenari di guerra, programmati tra l’inverno e la primavera, e Bloomberg ha titolato su come il fango possa essere un fattore determinante nel bloccare il possibile attacco russo, attacco che dovrebbe permettere la creazione di un corridoio tra le regioni separatiste di Donetsk e di Lugansk con la Crimea.

A Mosca le voci e le notizie su un’incombente avanzata delle proprie forze armate sono state smentite a più riprese in questi giorni, liquidate da Putin come mero allarmismo e dal suo portavoce Dmitry Peskov definite volte ad aumentare la tensione con l’Ucraina. Il direttore dell’Svr, il servizio di spionaggio estero russo, Sergey Naryshkin, già presidente della Duma fino al 2016, ha invece ravvisato un tentativo da parte di Washington di far pressioni su Kiev affinché quest’ultima lanci un’offensiva contro i separatisti.

Non è il primo allarme quest’anno sulla possibilità di una nuova fiammata del conflitto nell’Ucraina sud-orientale e su un coinvolgimento maggiormente attivo da parte russa. La scorsa primavera, in occasione dei preparativi verso il summit tra Biden e Putin, la tensione nella regione sembrava potesse sfociare in una guerra tra i due paesi, ma si trattava anche di un modo per ribadire l’importanza della questione ucraina tra Mosca e Washington.

I tentativi in quest’autunno di cogliere segnali di preparativi per un’escalation militare portano a cercarne i segni anche in quel che si scrive in Russia, così da far interpretare un editoriale di Fyodor Lukyanov, politologo di spicco e curatore del Valdai club, come una possibile giustificazione di un futuro intervento armato di Mosca in Ucraina. L’editoriale, la cui versione in inglese è stata prontamente citata in alcuni articoli apparsi sulla stampa italiana, prova in realtà a problematizzare la questione dell’allargamento della Nato e delle sfere d’influenza da parte russa. Scrive Lukyanov: a trent’anni dall’inizio di questa nuova era, Mosca sembrerebbe essere giunta alla conclusione che mantenere il vecchio sistema di silenzi e segnali stia diventando improduttivo e porti solo ad un approfondimento della crisi.

Quando Vladimir Putin, nel suo discorso al ministero degli Esteri il 18 novembre, ha incaricato il ministro Lavrov di ottenere dai suoi partner occidentali “la presentazione di serie garanzie a lungo termine per la Russia per garantire la nostra sicurezza in quest’area”, probabilmente non intendeva un altro documento-quadro in linea con lo spirito di quanto proposto negli anni 2000. Bisogna infatti parlare del rifiuto del principio stesso di come “un Paese possa scegliere per sé qualsiasi alleanza, e questo è solo affar suo”.

Parole che sembrano voler constatare come il Cremlino voglia affermare un principio di divisione in sfere d’influenza a livello globale, nulla di così nuovo rispetto a quanto si è visto nella politica estera di Mosca dell’ultimo decennio. A far preoccupare alcuni cronisti italiani è stato il passaggio di Lukyanov sulla finlandizzazione, riferimento chiarissimo allo status particolare di Helsinki durante la Guerra Fredda, ma interpretato da questi lettori dell’editoriale come possibile solo attraverso un intervento militare.

Il politologo russo in verità nel suo testo arriva alla resurrezione della categoria della finlandizzazione partendo dal rischio di bruschi movimenti in Europa orientale, scrivendo come: “Il problema che ha portato alla guerra russo-georgiana nel 2008 potrebbe ripresentarsi. L’assenza di garanzie formali da parte della Nato, unita alle esagerazioni politiche, ideologiche e, in parte, militari dei suoi leali partner, rappresentano una situazione di ‘zona grigia’ indeterminata. (…). L’auspicato ritorno all’adozione di cuscinetti, secondo Lukyanov, permetterebbe di disinnescare la crisi nel continente, perché “l’aggravamento nell’Est Europa è un segnale che il principio basilare di risistemazione dello spazio di sicurezza, sancito trent’anni fa, non funziona più. L’allargamento della Nato ha forgiato il panorama politico-militare in cui ora viviamo. Il mantenimento di tale prospettiva è foriero di esasperazioni, e rifiutarlo richiederebbe una revisione radicale del sistema delle idee alla sua base, con revisioni e conferme del sistema delle linee rosse. Ad esempio, il riassegnare al concetto di finlandizzazione un significato positivo, come lo ebbe durante la Guerra Fredda. Dopo di essa, (la finlandizzazione) è diventata quasi una parolaccia. Ma tutto cambia”.

Le parole di Lukyanov rappresentano la nuova dottrina del Cremlino? Come già si scriveva sopra, di nuovo c’è ben poco, dato che Mosca da anni, intervenendo in vari teatri, dall’Europa orientale al Medio Oriente passando per il Caucaso e l’Asia centrale (e con nuovi interessi in Africa), prova ad affermarsi come potenza globale. Vedere però in testi simili l’elaborazione di una nuova dottrina militare è rischioso, perché non consente la comprensione di quali siano le rivendicazioni russe verso la Nato e i Paesi occidentali, soprattutto in un contesto dove Mosca vede l’uscita di scena di una interlocutrice ferma ma leale come Angela Merkel a Berlino. Resta di difficile soluzione la situazione in Europa dell’Est, zona strategica sia per la Russia che per l’Unione Europea, e sempre presente negli interessi di Washington. Se la guerra può apparire come un tentativo di “rumore mediatico”, i problemi sul tavolo tra le parti restano e resteranno ancora per un bel po’ di tempo.

 

Russia-Ucraina, una nuova dottrina del Cremlino? Lukyanov letto dal prof. Savino

A proposito del conflitto russo-ucraino negli ultimi giorni si è acceso un faro su un editoriale firmato dal politologo Fyodor Lukyanov, curatore del Valdai club. I timori sono che il suo scritto possa indicare una giustificazione di un futuro intervento armato di Mosca in Ucraina. In realtà… Il commento del professor Giovanni Savino (Accademia presidenziale russa, Mosca)

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