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Da spettatore passivo a kingmaker, e viceversa. Comunque vada a finire la crisi in Ucraina, Alexander Lukashenko vorrà sedersi al tavolo delle trattative e rivendicare la sua parte. Non è priva di rischi la scommessa del dittatore bielorusso. Trascinato suo malgrado sulle prime linee del conflitto ucraino, non gli resta che trasformare un commissariamento in un’occasione.

La Bielorussia è un pivot strategico per la manovra di accerchiamento delle truppe russe con cui Vladimir Putin minaccia un’invasione in Ucraina. Una manovra multi-direzionale, dalle navi nel Mar Nero alle truppe in Crimea, che vede circa 150.000 uomini schierati a poche decine di chilometri dal confine ucraino. Dietro le quinte i negoziati procedono, la spola di lettere e cabli tra Washington e Mosca non si è mai fermata.

Uno scontro si può evitare, “siamo sempre più fiduciosi che una soluzione diplomatica all’attuale stallo si possa individuare”, confidano fonti diplomatiche americane. Se però l’opzione militare restasse in campo, Putin schiererà tutte le sue pedine, a partire da Lukashenko.

Più di 30.000 truppe si ammasseranno al confine bielorusso entro la metà di febbraio, ha avvisato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. L’occasione, sulla carta, è l’esercitazione congiunta Allied Resolve 2022, in programma dal 10 al 20 febbraio. Una spettacolare messa in scena del potere militare russo, dalle unità di terra ai caccia Su-35 e i temibili sistemi missilistici antiaerei S-400, per gentile concessione di Minsk.

A settembre un’altra esercitazione congiunta, Zapad 2021, ha aperto le danze dell’escalation ucraina. Decine di migliaia di soldati di Mosca non hanno fatto mai ritorno. Sono rimasti sul confine occidentale, in tenuta di combattimento, raggiunti da unità d’élites ed equipaggiamento di ogni tipo. Tutto a favor di satelliti.

Oggi le nuove manovre possono dare il la a un’incursione militare. Tra Kiev e il confine bielorusso c’è un viaggio di due ore e mezzo di macchina, 150 chilometri. In mezzo, la spettrale distesa innevata di Chernobyl. Pericolosa, perché quasi del tutto disabitata e attraversata da una ramificata rete ferroviaria. Ma sono più di mille i chilometri per cui si stende il confine tra Bielorussia e Ucraina.

Lukashenko vorrà giocare le sue carte. Poco importa che la sovranità dello Stato bielorusso sia un lontano ricordo. Era già appesa a un lumicino, da quando il dittatore ha chiesto l’aiuto di Mosca per sopprimere la maxi-ondata di proteste che nel 2020 ha scosso il Paese dopo una tornata elettorale truccata. Ora è solo più un’illusione perché, fa notare in una lettera allarmata ad Ursula von der Leyen uno schieramento bipartisan di parlamentari europei, l’invio di truppe russe a Minsk potrebbe essere l’ultimo tassello del piano di Putin: “Soggiogare e occupare la Bielorussia”.

Otto anni fa, quando gli “omini verdi” di Mosca hanno occupato manu militari la Crimea, Minsk ha assistito inerme e inerte. Neutrale, all’inizio. Poi perfino autonoma, con un sussulto di ribellione contro l’ex patron sovietico. Non ha riconosciuto la Crimea come russa, non ha seguito Putin nella guerra a suon di sanzioni contro l’Ue, che ha ricambiato esentando Lukashenko e il suo governo. Ha fatto della capitale il ponte negoziale per il cessate il fuoco, la sede dei famosi “accordi di Minsk”.

La luna di miele però è durata poco. Venerdì Lukashenko, che ormai sta al Cremlino come l’austera governatrice di Hong Kong Carrie Lam sta alla Città Proibita, ha suonato i tamburi di guerra: “Non importa cosa vogliono gli altri, riporteremo l’Ucraina nella culla dello slavismo. Siamo tenuti a farlo”.

Una guerra, in verità, è l’incubo di Lukashenko. Monterebbe un’ondata di malcontento nella già stremata popolazione bielorussa, avrebbe costi umani ed economici incalcolabili. E infatti non mancano frenate e smentite del leader, “Dio ci perdoni se dobbiamo combattere contro queste persone – ha detto giorni fa riferendosi agli ucraini – in un Paese dove probabilmente risiedono le radici dei miei trisavori”.

Ma non è questo il punto. La volontà del governo bielorusso, di uno Stato attualmente occupato dall’esercito russo, è poco più di una velleità. E buona parte degli analisti concorda: se Putin invaderà, partirà da lì. “Alcune condizioni – come il terreno e il modo in cui può essere usato – ci fanno assumere che un’azione potrebbe partire in direzione di Kiev dalla Bielorussia”, spiega al Washington Post Viktor Muzhenko, capo di Stato maggiore della Difesa ucraina dal 2014 al 2018. “Putin userà gli armamenti e le truppe schierate in Bielorussia a sua discrezione, e Lukashenko sarà semplicemente informato”, gli fa eco Artyom Shraibman del Carnegie Moscow.

Da dealer a pedina. Per due volte, nel 2008 durante l’invasione russa in Georgia e nel 2014 in Crimea, Lukashenko ha provato a smarcarsi da Mosca e flirtare con l’Europa. Non ha funzionato. E adesso è troppo tardi per ripensarci.

Da dealer a pedina (di Putin). Parabola di Lukashenko

Otto anni fa, di fronte all’invasione russa della Crimea, ha provato a smarcarsi dal patron sovietico, senza successo. Oggi si ritrova suo malgrado al fronte della guerra in Ucraina. Parabola (discendente) di Alexander Lukashenko, il dittatore che non detta legge

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