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Le politiche di aiuti tra Stati hanno assunto con il tempo forme sempre più sofisticate e riguardato settori di intervento piuttosto lontani dall’emergenza umanitaria o della cooperazione allo sviluppo di derivazione terzomondista, che dominano l’immaginario nell’opinione pubblica.

Le fasi del Covid hanno confermato come gli Aiuti di Stato (dalle mascherine ai vaccini) si siano affermati come strumento diretto di politica estera, espressione dei suoi obiettivi e, ove possibile, estensione della sua azione. Prima della pandemia, uno dei principali precedenti storici di assistenza statuale internazionale su larga scala fu quello mosso dall’Occidente verso i paesi dell’Europa dell’Est usciti dal Patto di Varsavia all’inizio degli anni 90, in concomitanza con la fragorosa e repentina fine del sistema bipolare.

Tra i primi e più importanti programmi di aiuto di quella stagione – a tal punto da avere ispirato quelli che poi seguiranno – vi fu il PHARE (Poland and Hungary Assistance for Economic Restructuring) dell’ Unione Europea. Il nome metteva in evidenza i due paesi primi beneficiari dell’azione, sia in ordine di cronologico che per numero di interventi e risorse mobilitate.

Che oggi i maggiori problemi al processo di integrazione europea provengano proprio da quei due stessi paesi non può essere considerato un caso né liquidato con la banale personalizzazione di uno scontro tra europeisti-buoni e sovranisti-cattivi  (o il contrario, a seconda  dei punti di vista). La questione da porsi è che relazione vi sia tra quel tipo di assistenza europea e l’attuale scontro in atto tra Bruxelles da un lato, Varsavia e Budapest dall’altro. Si potrebbe ipotizzare che delle due è l’una: o quegli aiuti non sono stati efficaci e non hanno raggiunto l’obiettivo che si erano prefissati; oppure essi sono stati addirittura dannosi ed hanno ispirato la crisi attuale.

Qualunque sia il responso, è utile inquadrare la questione in un perimetro storico-politico per comprenderla meglio. Il nome Phare ricorda anche che il focus principale di Bruxelles all’epoca fu di facilitare aiuti nel campo economico, nonostante si avesse a che fare con transizioni post-comuniste e seri problemi di ordine costituzionale e politico-istituzionale.

Ciononostante,  promuovere la Free Market Economy fu termine chiave ricorrente di quegli interventi di Aiuto, molto più centrale rispetto alla creazione di uno Stato di Diritto (Rule of Law). Questo diverso peso fu dovuto da un lato ad una debolezza strutturale della Unione Europea in quel periodo, molto più forte ed incisiva come istituzione multilaterale nel campo economico che in quello politico.

Vi era però anche il fatto che su alcune colonne portanti dello Stato di Diritto, come l’amministrazione della giustizia, Bruxelles non aveva un comune modello “democratico” da proporre a nome dei suoi Stati Membri; custodi di ordinamenti giudiziari piuttosto disomogenei. Gran parte delle decine di progetti di assistenza tecnica alla riforma della giustizia che la Ue ha finanziato in paesi terzi in questi decenni, si sono soffermati su aspetti tecnici (informatizzazione delle Corti, potenziamento della formazione dei giudici, miglioramento del sistema penitenziario etc.) – ma molto poco sull’architettura complessiva del sistema giudiziario.

Al netto dello scontro politico sottostante, parte della frustrazione polacca sta proprio nel fatto che l’oggetto (strumentale) della contesa oggi riguardi il principio sacrosanto dell’indipendenza della giustizia dalla politica, di cui però ogni Stato membro della Ue ha maturato una sua interpretazione ed applicazione istituzionale. Lungi dal potersi dire perfetta e meritevole di essere prescrittiva (non solo in Italia).

Tanto che il principale soggetto europeo che elabora principi per una giustizia efficace (il Cepej, European Commission for the Efficiency of Justice), non è iniziativa dell’ Unione Europea ma del Consiglio d’Europa. E non produce norme ma mere raccomandazioni per i 47 stati membri del CoE.

Al netto delle sue posizioni politiche obiettivamente scomode e rigide, la Polonia non capisce oggi perché alla propria Corte Costituzionale è vietato dichiararsi superiore alla legislazione europea; mentre quella tedesca si riserva il diritto, con una semplice sentenza, di fare saltare l’applicazione dell’intero meccanismo dei Recovery Fund. In definitiva, di quella importante stagione di Aiuti europei che permisero loro di aderire alla Ue, Varsavia e Budapest non ricordano solo quanto hanno preso, ma anche quanto hanno dato in termini di opportunità economiche aprendo i propri mercati – e geo-politiche entrando nella Nato in funzione anti-Russa.

Memori del fatto che i Donatori statuali perseguono (e spesso ottengono) interessi nel complesso superiori a quelli dei Beneficiari, Polonia e Ungheria sono irritate dall’essere oggi additate come uniche responsabili dei fallimenti politici riconducibili a quelle politiche di Aiuti, le cui regole di ingaggio furono decise e gestite esclusivamente da Bruxelles.

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Al netto delle sue posizioni politiche obiettivamente scomode e rigide, la Polonia non capisce oggi perché alla propria Corte Costituzionale è vietato dichiararsi superiore alla legislazione europea. L’analisi del prof. Igor Pellicciari (Università di Urbino)

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