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Un report della Commissione Affari esteri dell’Europarlamento chiede all’Unione europea di studiare un accordo di investimento bilaterale con Taiwan, la Repubblica di Cina che il Partito/Stato di Pechino considera una provincia ribelle. Il Bilateral Investment Agreement (BIA), come viene definito in gergo tecnico, ha come obiettivo il rafforzamento degli scambi commerciali su 5G, salute pubblica e forniture di semiconduttori. Si tratta di ambiti importanti, dove i collegamenti con Taiwan sono cruciali per l’Ue (soprattutto sui semiconduttori), ma – se si esce dal piano economico-commerciale – il potenziale accordo sarà anche un elemento dal valore altamente politico.

Taiwan soffre l’assenza di un ampio carnet di riconoscimenti internazionali, tutti finora rallentati dai rapporti con la Cina – compreso per l’Ue. Per avere rapporti con Pechino si deve riconoscere la teoria della “One China”, per la prima volta messa nero su bianco nello Shanghai Communiqué del 1972, dopo la storica visita del presidente Nixon in Cina. Ossia, è richiesto a qualsiasi stato voglia intavolare relazioni diplomatiche con la Cina (e tutto ciò che ne consegue) accettare l’esistenza geografica di Taiwan come parte della Repubblica popolare cinese, e dunque la sua l’inesistenza politica.

Per il Partito/Stato la Repubblica di Cina è una provincia ribelle da riannettere, e il segretario, il capo di Stato Xi Jinping, ha già fatto capire che è pronto a farlo anche con la forza. Xi teme che l’indipendentismo taiwanese arrivi a un punto di non ritorno, e sa che maggiori sono le connessioni che Taipei costruisce con il resto del mondo, maggiore sarà lo sforzo che la sua Cina dovrà compiere per riannettere l’Isola. Le relazioni che altri Paesi stringono con Taiwan si basano su artifizi diplomatici, scelte di linguaggio nel trattare la One China policy che lasciano spazio per le relazioni con una realtà, quella amministrata da Tsai Ing-wen, che è un centro di eccellenza su diversi settori. I legami però hanno un valore più solido, e Pechino ne è cosciente.

Gli Europarlamentari si esprimeranno in plenaria a ottobre: l’accordo bilaterale con l’Europa dovrebbe essere costruito attorno alla One China, hanno indicato sulla risoluzione proposta, ma è evidente che potrebbe essere un ulteriore passaggio che va a intaccare le relazioni con la Cina. Finora, con Taiwan, l’Ue ha avuto una linea accettata da Pechino, ma ultimamente ci sono stati alcuni passaggi che hanno fatto infuriare il Celeste Impero. A cominciare dalla scelta di ribattezzare l’ufficio commerciale sull’isola in “Ufficio dell’Ue a Taiwan”; finora veniva indicato Taipei, ossia la città e non la realtà statuale collegata. È parte di quelle capriole del linguaggio usate dalla diplomazia, che recentemente anche la Lituania ha obliterato permettendo l’apertura sul proprio territorio di un “ufficio di rappresentanza taiwanese”.

S’aggiunga a questo il congelamento del progetto Cai, l’accordo quadro sugli investimenti che l’Ue aveva abbozzato in fretta con la Cina e che è stato messo in stand-by anche per aprirci sopra una riflessione tecnico-politica con l’alleato statunitense, situazione che porta realisticamente a pensare che la Commissione Ue non negozierà accordi con Taiwan prima della soluzione di quest’altro accordo, ma la decisione del Parlamento europeo è comunque significativa.

D’altra parte, a dimostrazione dell’aumento delle frizioni, si ricorderà la scelta cinese di sanzionare dieci politici europei e alcuni think tank in risposta alle sanzioni occidentali contro i leader delle autorità cinesi responsabili delle compagne coercitive nello Xinjiang (era marzo). Lo stesso vale per la strategia pensata per l’Indo Pacifico, dove – al netto delle sfuriate francesi attorno all’Aukus – Bruxelles si appresta a integrarsi con Washington in una cooperazione che ha come obiettivo, nemmeno troppo nascosto, il contenimento della Cina.

Recentemente Taiwan ha firmato il protocollo d’adesione al CPTPP, acronimo di Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, un accordo economico che comprende 11 nazioni dell’Asia-Pacifico che insieme cumulano il 13,4 per cento dell’economia globale. La richiesta d’adesione taiwanese è arrivata a una settimana da quella cinese – una ripetizione di quanto successo con il Wto, quando i due Paesi segnarono l’ingresso a un mese di distanza l’uno dall’altro. La questione sta mettendo in difficoltà i Paesi membri del CPTTP, perché temono che dare precedenza (o impedimento) a uno dei due possa portarsi conseguenze. L’accordo era stato pensato dagli Stati Uniti come forma di contenimento cinese, e quando gli Usa sono usciti il Giappone l’ha rivitalizzato cercando di guidare le trame della regione.

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