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Senza riservare ulteriori colpi di scena, la “telenovela” avente come protagonisti l’attuale miglior tennista al mondo, Novak Djokovic, e un variegato complesso di autorità australiane (federali e regionali, governative e giudiziarie, senza parlare degli ineffabili organizzatori dell’evento sportivo di Melbourne) ha rispettato il copione già scritto dal 5 gennaio, giorno del “fermo aeroportuale” dello sportivo serbo. Come noto il Ministro competente Alex Hawke aveva, negli scorsi giorni, esercitato la prerogativa, prevista dall’articolo 133 della legge federale sull’Immigrazione, di cassare la sentenza del giudice monocratico Anthony Kelly, come noto favorevole al campione serbo (anche se, è bene precisarlo, limitatamente agli aspetti procedurali) ) sulla base di motivi di “pubblica salute e buon ordine”. Il nuovo ricorso presentato dai legali di Djokovic non è stato accolto dall’istanza giudiziale “di appello”, la Corte Federale di Giustizia, formata da tre magistrati, pronunciatasi per il rigetto dopo una udienza protrattasi per alcune ore.

Fondamentale, nelle valutazioni del presidente del collegio, James Allsop, e dei suoi colleghi, è risultata la circostanza che la ormai diffusa assimilazione del campione serbo a un “no vax” possa indurre molti australiani a farne proprio il comportamento e, con ciò, ad accrescere, sul piano interno, le ripercussioni di natura sanitaria. Di conseguenza l’ordine di espulsione nei confronti del nove volte vincitore degli Open d’Australia è ormai definitivo ed eseguibile. Nelle sue prime dichiarazioni, Djokovic nel dare voce alla sua delusione ha al tempo stesso detto di accettare il verdetto e di volersi concedere un periodo di riposo e riflessione.

La sentenza, di cui si attendono più dettagliate motivazioni, oltre a un non drammatico pagamento delle spese processuali, dovrebbe altresì contemplare a suo carico (circostanza soggetta a conferma) un decisamente più grave “visa ban” triennale. Per un atleta giunto al 34esimo anno di età, questo segnerebbe una sorta di interdizione “a vita” dal Paese-continente, sembrando invero improbabile che Djokovic intenda, concluso il periodo di attività agonistica, rimetterci i piedi da semplice turista. Sul piano delle buone notizie, al “deportando” verrà per lo meno risparmiato l’avvio di un procedimento penale, collegato alle false attestazioni contenute nei moduli a suo tempo consegnati alla frontiera (e subito contestati dalla Border force), che avrebbe potuto sfociare in una pena detentiva fino a cinque anni.

A commento della incresciosa vicenda, abbiamo già avuto modo di evidenziare (qui) la totale “indifendibilità” dell’atteggiamento del giocatore serbo e del suo entourage – un misto di superficialità, arroganza e temerarietà – a fronte di un fenomeno pandemico che nel mondo ha già mietuto milioni di vittime e che proprio da tali comportamenti irresponsabili ricava i presupposti per continuare a mietere un tragico “raccolto” giornaliero. Su questo sfondo, appare persino scontato sottolineare l’irreparabile auto-nocumento apportato da Djokovic alla propria immagine pubblica di eminente sportivo, considerato anche che il pubblico del tennis è composto in larghissima misura da giovani e giovanissimi.

Al tempo stesso, in un sistema politico che, come è il caso di Canberra, è spesso incline a ostentare elevate patenti di democrazia, un qualsiasi provvedimento sanzionatorio, per essere equo e accettabile, non può che essere commisurato all’entità del “vulnus” arrecato. Per esemplificare, un eccesso di velocità senza nessuna altra conseguenza deve, correttamente, comportare per il trasgressore una sanzione pecuniaria e, se del caso, la detrazione di punti dalla patente. Una sanzione che prevedesse anche un prolungato sequestro dell’autovettura si rivelerebbe, viceversa, immotivata e in quanto tale arbitraria. Se confermata, l’interdizione triennale di ingresso ricadrebbe, a nostro avviso, esattamente in tale categoria.

Ritornando all’attualità, tra le molte interviste – in taluni casi centrate, nella maggioranza palesemente sopra le righe – di questi giorni, spicca per equilibrio quella rilasciata dal presidente del Coni, Giovanni Malagò. Richiesto di esprimere un parere sull’“affaire Djokovic”, egli ha con molta chiarezza suddiviso le responsabilità in parti uguali fra i tre protagonisti: il tennista serbo, le autorità serbe e gli organizzatori del torneo Grande Slam di Melbourne. Questi ultimi, per inciso, sono impegnati a modificare il tabellone del torneo, che inizia oggi, e che, come prima testa di serie, contemplava il nome del campione di Belgrado. In merito, una qualche consolazione è data dal fatto che sarà un tennista italiano, Salvatore Caruso, a occuparne il posto in qualità di “lucky loser”.

In conclusione, il dato di fatto che, alla resa dei conti, a pagare per tutti sia solo il primo dei correi, reca con sé, per quanto gravi siano nella circostanza le colpe e le omissioni di Novak Djokovic, un incomprimibile sentimento di ingiustizia. Chiunque dei partecipanti si troverà, il prossimo 30 gennaio, nella meritata condizione di celebrare il titolo dell’Australian Open 2022, farebbe bene a dedicarci un pensiero, già sapendo, beninteso, che ciò non accadrà.

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