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Il bonus salute mentale (o come viene chiamato sui social “bonus psicologo”) è uno di quei provvedimenti che più che spiegati, discussi, annunciati, andrebbero fatti. Tanta è l’urgenza, anzi l’emergenza psicologica – l’altra faccia della crisi pandemica – che lo rende essenziale, prioritario.

L’emergenza, crediamo, la sperimenta ognuno di noi, nella propria vita, personale, familiare, relazionale, sociale. Che impatta come una devastazione sulle generazioni più giovani, con fenomeni depressivi, di autolesionismo, disturbi alimentari, crisi di panico e di ansia che tutti gli specialisti ci dicono non avevano mai registrato con questa forza.

Una devastazione che non risparmia, però, nessuna età, che spegne, che fa saltare per aria le fragili difese che eravamo stati in grado di tenere in piedi per reggere alla prima ondata e che richiede a chi governa un’assunzione di responsabilità. C’è bisogno di stare ancora a elencare numeri, sondaggi, analisi, inchieste? C’è bisogno di aspettare che la petizione che chiede il bonus e che oggi ha superato le 250mila firme ne aggiunga altre millemila? Se la casa brucia, scappi, non stai lì a perder tempo, ma agisci.

Si dice: eh, ma il bonus è temporaneo ed estemporaneo. In realtà la nostra proposta è sempre stata strutturale, con stanziamenti previsti a partire dal 2022, per dare continuità a un nuovo modo di intendere le politiche per la salute e quelle per la salute mentale, nello specifico. Se si vuole discutere di una proposta lo si faccia, si apra il dibattito, con consapevolezza e senza retropensieri.

Si dice: eh, ma il bonus non è troppo di sinistra. E noi diciamo: e se fosse giusto, prima di essere di sinistra o di centro, o verde o blu? È forse più di sinistra fingere che il problema non ci sia, trincerarsi dietro al benaltrismo e lasciare che il problema si aggravi in attesa di una risposta ottima che non sembra mai arrivare, tanto più in una fase di emergenza come questa?

Si dice: eh, ma i soldi non ci sono. Non è vero: i soldi c’erano, eccome. Ma non è il momento di fare polemiche o di rimbalzarsi le responsabilità. Stiamo alla apertura venuta dal ministro Speranza alla Camera su nostro sollecito. Ripartiamo da lì. E poi: se i soldi ci sono per tante altre cose, magari meno sacrosante, ci saranno o no per la salute mentale delle persone, che dite? Sono forse più importanti i tanti bonus istituiti nel corso degli anni di un sostegno economico, differenziato sulla base delle fasce di reddito, per chi sceglie di prendersi cura della propria salute mentale?

Si dice: eh, ma i soldi ai privati non va bene. E noi vi diciamo: non è che a volte vanno bene e altre male. Magari se pubblico e privato collaborassero – troviamo le forme, le modalità – le due mani si aiuterebbero. Come abbiamo sempre detto, introdurre un bonus non toglie niente al ridisegno di una sanità territoriale a servizio della salute mentale delle persone. Le cose si possono e si devono fare entrambe, per rispondere con più strumenti all’enorme problema del benessere psicologico degli italiani, e perché sappiamo che risposte integrate tra pubblico e privato possono essere molto più efficaci.

Si dice: eh, ma così si indebolisce il servizio sanitario nazionale. Ma quando mai? Anzi. La sanità pubblica farà ancora meglio il suo lavoro, insostituibile, se attorno trova una rete di sensori, delle vibrisse che individuano il disagio, aiutano a trattarlo, magari a scaricarlo a terra, prima che diventi un guaio enorme, e forse siamo già troppo tardi. Sostenere economicamente chi desidera accedere a servizi di terapia è innanzitutto un investimento in prevenzione, e come tale un aiuto concreto al benessere degli italiani e alla sostenibilità del nostro servizio sanitario.

Si dice: eh, ma che ci fai con cinque o dieci sedute dallo psicologo o dallo psicoterapeuta o dallo psicanalista, come fanno in Francia o in Spagna? Sappiamo che sono percorsi lunghi, spesso di anni. Ma, proprio per questo, avere la possibilità di affrontarli o di cominciare ad affrontarli non solo se te lo puoi permettere, ma perché ne hai bisogno sarebbe un buon modo non per predicare, ma per praticare l’uguaglianza delle opportunità e dei diritti, scritta nella carne della nostra Costituzione. Ci vuole forse lo psicologo di base? Sì, certo, e chi lo nega? Siamo i primi a volerlo, a chiederlo, a dare una mano come legislatore perché si facciano riforme più profonde in questo senso. Ma intanto che si fanno, che vengono approvate, e passano da una parte all’altra del Parlamento, campa cavallo, cosa diciamo alle migliaia, ai milioni di persone che stanno vivendo oggi, adesso, ora, questa sofferenza, questa ferita aperta dal colpo di vanga del Covid? Aspettate? Tenete duro? Poi passa? Tranquilla che se tuo figlio si taglia le braccia ci si mette un cerotto? Porta pazienza che tra qualche anno vedrai che starai benone?

Sono queste solo alcune delle ragioni che vengono opposte alla proposta di un bonus psicologo e delle ragioni, invece, che impongono a noi che stiamo in Parlamento e a tutti noi di non perdere più tempo a parlarne, ma di farlo, di renderlo strutturale, di offrirlo come strumento capace di integrarsi nel progetto di ridisegno del nostro servizio sanitario. Lo stanno facendo amministrazioni locali, come a Rimini; municipali come a Milano. Lo sta facendo la Campania, ora il Lazio. Perché non possiamo farlo per tutti, dovunque? Ci abbiamo provato al Senato – dove tutti i gruppi parlamentari, da destra a sinistra, tutti, avevano firmato un emendamento che lo chiedeva il bonus – ci proviamo adesso alla Camera, cercando la massima condivisione e l’individuazione di uno slot utile in un provvedimento il prima possibile. Basta dirlo, però.

Facciamolo. Oggi, adesso, ora.

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