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Gli attacchi kamikaze a Kabul, temuti dagli 007 a stelle e strisce, si sono puntualmente verificati con precisione chirurgica. Terrore e morte presso l’aeroporto, simbolo ormai di un martirio per il popolo afghano lungo settimane. Il bilancio dell’attacco a Kabul è salito ad almeno 170 morti e 200 feriti. Sarebbe stato uno solo l’attentatore suicida nelle due esplosioni, come ha spiegato il Pentagono.

L’orrore di queste ultime ore si specchia negli errori – ancora una volta – già annunciati dell’establishment americano in primis, che ha avallato un ritiro affrettato contro l’opinione del Pentagono e dell’intelligence credendo nella promessa “talebana” di Doha. Talebani incapaci di controllare le loro azioni e il territorio afghano denso di infiltrazioni della provincia del Khorosan, espressione locale dei rivali jihadisti dell’Isis.

L’Afghanistan oggi come il più appetibile degli “Stati falliti” dove l’Isis può risorgere attraverso obiettivi molto più feroci della vecchia Al Qaeda, la guerra jihadista è iniziata e il ritiro dell’Occidente si fa più fragoroso ogni ora che passa.

Occorre “un’attenta riflessione per capire come mai l’America si sia ritrovata a dare l’ordine del ritiro, con una decisione presa senza preavviso né accordo preliminare con gli alleati e con le persone coinvolte in questi vent’anni di sacrifici. E come mai la principale questione in Afghanistan sia stata concepita e presentata al pubblico come la scelta tra il pieno controllo dell’Afghanistan o il ritiro totale”. Lo ha scritto Henry Kissinger in un intervento sull’Economist pubblicato dal Corriere della Sera dopo “la riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani”.

“Una diplomazia creativa avrebbe potuto distillare misure condivise per debellare il terrorismo in Afghanistan. Questa alternativa non è mai stata esplorata”, conclude Kissinger, convinto che l’America non possa “sottrarsi al suo ruolo di attore chiave nell’ordinamento internazionale”.

I fatti delle ultime ore però ci raccontano l’atteggiamento fermo e deciso del presidente Joe Biden, mentre scorrono le immagini dei corpi straziati, delle vite di donne e bambini spezzate per sempre che mostrano al mondo l’inferno in Terra.

Gli Stati Uniti ritengono “altamente probabile” un nuovo attacco all’aeroporto di Kabul in 24-36 ore, ha poi affermato Biden: “La situazione sul campo continua a essere estremamente pericolosa e la minaccia di attacchi terroristici all’aeroporto rimane alta. I nostri comandanti mi hanno informato che un attacco è altamente probabile nelle prossime 24-36 ore”.

Il raid aereo americano come unica risposta – che ha ucciso due membri di alto profilo di Isis-K – ha provocato dure reazioni da parte dei talebani che a loro volta hanno iniziato i combattimenti nella provincia di Nangarhar, nell’Est dell’Afghanistan, per riprendere il controllo dei distretti caduti sotto il controllo della formazione baghdadista.

Ma quand’è nato l’Isis-K? Lo Stato Islamico del Khorosan, nome storico della regione che comprende l’Afghanistan ma anche parte del Pakistan, Iran e altri Paesi dell’Asia Centrale, nasce nel 2014 quando il Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi è all’apice e si diffonde attraverso affiliazioni di “province”.

A fondare l’Isis-K sono un gruppo di fuoriusciti dei talebani pachistani (Tehrik-e-Taliban Pakistan) che sin da subito si trovano a combattere con gli americani, contro i talebani e contro il governo di Kabul. Ma è con i talebani che il gruppo combatte le battaglie più serrate, nonostante adottino un’ideologia pressoché comune i due gruppi integralisti sono ai lati opposti di un conflitto che ormai da anni divide il jihadismo globale. I talebani rappresentano, come sappiamo, la vecchia generazione del jihadismo a cui il network dell’Isis vuole sottrarre lo scettro.

Sarà una guerra lunga e strisciante, considerando come i talebani al momento non abbiano completamente il controllo del Paese e come non possano più “delegare” a Stati Uniti e governo afghano operazioni contro l’Isis-K.

Lo scenario peggiore vede l’Afghanistan come un campo di battaglia perpetuo del conflitto intra-jihadista, uno scenario che se fosse confermato dai fatti avrebbe ripercussioni drammatiche per un popolo già fiaccato da settimane di folle confusione politica e sociale.

Secondo l’analista politico Ian Bremmer, fondatore di Eurasia Group, messi da parte i “diritti umani” gli Stati Uniti hanno respinto ripetutamente le pressioni dell’Europa volte a ritardare il ritiro delle truppe americane da Kabul, “non coinvolgerli nella decisione del ritiro è stato un errore”. Per gli Stati Uniti insomma i “bisogni domestici” sono oggi prioritari, così come la proverbiale empatia di Biden è riservata solo agli americani.

La volontà americana di promuovere una politica estera basata sui diritti umani non è più da tempo quella del dopoguerra, sostiene Bremmer. Ce lo racconta la storia stessa di Biden quando nel 1975 giovane senatore si schierò contro l’intervento umanitario in Vietnam dopo la caduta di Saigon. Corsi e ricorsi della storia che come sempre gioca ad arrotolarsi su sé stessa.

Rimane lo scenario fosco degli ultimi giorni che potrebbe portare a un domino del terrore su scala internazionale. Rimangono le immagini di donne e bambini a cui è stata nuovamente tolta la libertà di sognare di vivere in un posto migliore.

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