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Gli Stati Uniti, l’Australia e il Giappone finanzieranno la costruzione di un cavo sottomarino per migliorare la connettività internet per le 100.000 persone negli Stati federati di Micronesia, nelle isole Kiribati e a Nauru e per rendere la regione “aperta, inclusiva e resiliente”. Tradotto: più pronta ad affrontare l’ascesa cinese.

L’hanno annunciato i sei governi coinvolti in una dichiarazione congiunta che conferma le indiscrezioni di alcuni mesi fa. Esclusa Huawei Marines Technologies, l’ex unità cavi della cinese Huawei che oggi è di proprietà di Hengtong Group, multinazionale fondata, come spiega uno studio dell’European Council on Foreign Relations, da Cui Genliang, un ex ufficiale dell’Esercito di liberazione popolare e fino al 2013 membro del Congresso nazionale del popolo.

“Una migliore connettività e l’accesso alle tecnologie digitali possono fornire significativi benefici economici e sociali e sono fattori chiave per lo sviluppo sostenibile”, si legge. “Aiutano anche ad aumentare la disponibilità di servizi governativi digitali, in particolare nell’istruzione e nella salute, e forniscono alle imprese e alle famiglie un migliore accesso ai servizi, alle informazioni e al commercio, e alle opportunità di lavoro”.

Ma, come spiega la stessa dichiarazione, “è più che un investimento infrastrutturale”. L’intesa, infatti, “rappresenta una partnership duratura per fornire soluzioni pratiche e significative in un momento di sfide economiche e strategiche senza precedenti nella nostra regione. Questo progetto si basa sulle forti fondamenta della collaborazione trilaterale tra Australia, Giappone e Stati Uniti nell’Indo-Pacifico, che include anche il sostegno al cavo sottomarino di Palau”.

Basta saltare qualche riga nella dichiarazione congiunta ed ecco comparire in penombra l’obiettivo dell’intesa: la Cina, che come rivelato dal South China Morning Post sta per costruire due basi e altrettanti nuove navi per i cavi sottomarini nel Mar cinese orientale e in quello meridionale. Gli Stati Uniti e i lori alleati temono che Pechino possa utilizzare i cavi sottomarini per fini spionistici. “Questi partenariati soddisfano i bisogni reali, rispettano la sovranità e completano il partenariato trilaterale per le infrastrutture e l’iniziativa Build Back Better World”, si legge nel documento. Cioè l’alterativa alla Via della Seta lanciata dal presidente statunitense Joe Biden in occasione del G7 di giugno. E nelle parole scelte per la dichiarazione c’è tutta la visione di Washington, decisa a contrastare l’iniziativa di Pechino percepita come espansionistica ed egemoniche ma anche additata come “trappola” in molti casi.

I cavi sottomarini, su cui viaggia il 97% del traffico web e 10.000 miliardi di dollari di transazioni finanziarie ogni giorno, “sono alla base del funzionamento stesso dell’Internet globale, il che significa che il potere di esercitare il controllo sui cavi sottomarini potrebbe dare a un Paese una leva in un conflitto militare, vantaggi economici come nodo centrale per i flussi di dati, e vantaggi di spionaggio” dal traffico via cavo, ha spiegato Justin Sherman dell’Atlantic Council al South China Morning Post. “Ogni singolo governo del mondo spia, e [quello di] Pechino non è diverso”, ha aggiunto: “quindi, una maggiore capacità di mantenere i cavi sottomarini ha una dimensione sia economica sia spionistica”.

Ragione per cui gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare rotta da alcuni mesi ormai. Google e Facebook hanno deciso che non utilizzeranno il cavo Peace, che collega Pakistan, Africa orientale ed Europa (arrivando a Marsiglia, in Francia), costruito anche da alcune aziende cinesi, come Huawei e Hengtong, per via delle sanzioni americane alla luce delle preoccupazioni del governo per gli aspetti di sicurezza nazionale.

(Foto: www.submarinecablemap.com)

Pacifico, un cavo? L’investimento anti Cina di Usa, Australia e Giappone 

Migliorare la connettività negli Stati federati di Micronesia, nelle isole Kiribati e a Nauru ma anche contrastare l’ascesa cinese nei fondali e nel traffico dei dati. Ecco la mossa di Washington, Canberra e Tokyo (e non è la prima)

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