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Le difficoltà che stanno incontrando nella composizione delle liste elettorali i candidati a sindaco in tutte le città, che vanno alle prossime elezioni d’autunno, mi inducono a riflettere sul tema scottante dello stato di salute del nostro sistema democratico e del grado di partecipazione alla vita amministrativa dei nostri concittadini, partendo dalla condizione attuale dei partiti politici.

Oggi si chiamano movimenti, nei quali tutti e ciascuno si può inserire, può entrare o uscire a piacimento come in un torrente, in un flusso in movimento perenne. Ci si “sciacqua i panni in Arno”, come avrebbe detto Alessandro Manzoni, e via, per darsi una rinfrescata, per togliersi di dosso la polvere di passate iscrizioni a vari partiti.

Per un’altra avventura, per una diversa compagine, “in un nuovo schieramento” in un “Polo” rinnovato e in una “Nuova alleanza”. I nuovi assembramenti amano dirsi “casa comune”, come quella paterna, che richiama la famiglia, la comunità, il focolare domestico, o preferiscono chiamarsi “campo largo”, per dare l’idea di una campagna di Arcadica memoria, abitata da famiglie del Mulino Bianco.

Oggi esiste solo il “soggetto politico”. Ogni giorno ne nasce uno.

Ci si compone e ci si scompone e si passa dall’uno all’altro senza un minimo di coerenza e senza nemmeno dare giustificazioni. I partiti non danno più emozioni a nessuno, non infiammano più i cuori.

E proprio per questo, nascono nuovi gruppi. In una sorta di reazione a catena.

È la morte della “democrazia dei partiti”, perché i partiti così come li abbiamo conosciuti sono diventati degli zombi politici, dei cadaveri ambulanti privi come sono di una cultura, di una ideologia, di una identità, di un progetto che li distingua l’uno dall’altro.

Per questo si frantumano e si riproducono come l’ameba.

Tutto questo spiega perché nella fase che stiamo vivendo impera il trasformismo, malattia tutta italiana, che trasforma le rivoluzioni in restaurazioni, i progressisti in passatisti, i massimalisti in minimalisti, i rivoluzionari in riformisti, i conservatori in liberaldemocratici, gli estremisti in moderati.

Ma questo è solo il segnale, è la punta di un iceberg.

Infatti, dietro la sindrome di “Centopadelle”, come la definiva Giuliano Amato, non vi è solo il personalismo di uomini politici in cerca di potere e di futuro. Soprattutto personale.

È il segnale della crisi irreversibile dei partiti politici come strumenti di partecipazione e come canali del consenso popolare.

È, insomma, la conseguenza diretta della rottura del rapporto tra la società e la sua rappresentanza politica che negli anni tra le due guerre mondiali del secolo scorso il grande pensatore Charles Maunas aveva già individuato e registrato nella distinzione tra “Paese reale” e “Paese legale”.

E così i partiti si frammentano e si riproducono, parcellizzandosi e moltiplicandosi, nascono e muoiono.

Ma ciò che avviene nel “Palazzo” della politica è in pratica quello che si manifesta e si verifica nella società italiana, che è frammentata e segmentata, sfilacciata e disarticolata: la cosiddetta “società dei coriandoli”, come la definì Giuseppe De Rita, il mio amico presidente del Censis.

Si sono frantumate quelle identità culturali, ideologiche e politiche che erano state per oltre mezzo secolo il surrogato dell’identità nazionale.

In effetti, dopo il 25 luglio (la fine del regime fascista) e l’8 settembre (il cambio di fronte e la disgregazione dell’esercito), in mancanza di una “religione civile e nazionale”, le ideologie, le fedi politiche avevano colmato un vuoto e avevano svolto un ruolo di supplenza.

Diciamo la verità, la cultura cattolica e quella comunista avevano occupato e informato lo Stato, le istituzioni e tutte le articolazioni sociali, sindacali, le banche, la Rai, la stampa, e quella galassia di associazioni che svolgevano un ruolo di supporto collaterale alla Democrazia Cristiana ed al Partito Comunista Italiano, ecc.

Una ossatura che, soprattutto verso la fine della Prima Repubblica, per quanto artificiale, sclerotizzata e ossificata, clientelare e spartitoria aveva retto tutta l’impalcatura costituzionale e sociale.

Oggi, di fatto, gli italiani sono rimasti orfani. Chi è riuscito a tenere in piedi un simulacro di partito ha perso la fede e chi ha mantenuto la fede non ha più un partito.

Le appartenenze non rappresentano più degli ancoraggi politici e culturali. Le militanze sono appannaggio di esigue minoranze. Per questo il voto è diventato prevalentemente d’opinione ed è, quindi, volubile e volatile. Fluido, incontrollabile, dispersivo, soprattutto espressione di interessi contingenti di gruppi e lobby.

Sarebbe perciò indispensabile iniziare a lavorare alla ricostruzione di una identità italiana. Ma questo compito/dovere sembra non interessare la classe politica attuale e, quel che è più grave, nemmeno gli intellettuali, la cui funzione dovrebbe essere soprattutto proprio questa.

L’impresa dunque appare difficile, perché la realtà del nostro popolo si presenta come una galassia individualistica, priva di forti passioni, orba di orientamenti culturali precisi.

Una comunità, la nostra, sfibrata dal coronavirus, invecchiata, preoccupata solo del presente  allarmata per la criminalità e per il fenomeno dell’immigrazione, per la perdita delle garanzie sociali e per la concorrenza internazionale.

Insomma rassegnata, perché non crede più a niente e a nessuno e non ha più fiducia nemmeno in se stessa.

Non so a questo punto se potranno esserci ancora occasioni per aprire nuove stagioni riformiste, a partire dal ritorno a un sistema elettorale fortemente maggioritario che sia in grado di spazzare via inciuci e trasformismi e che garantisca l’alternanza degli schieramenti.

O se il lavoro per realizzare una democrazia compiuta e partecipativa dovrà partire da quegli uomini che ancora vogliono rappresentare le speranze residue di rinnovamento non solo del nostro sistema politico, sociale ed economico. Ma del Paese e della società italiana.

elezioni abruzzo

Cosa c'è dietro la difficile composizione delle liste elettorali

Le appartenenze non rappresentano più degli ancoraggi politici e culturali. Le militanze sono appannaggio di esigue minoranze. Per questo il voto è diventato prevalentemente d’opinione ed è, quindi, volubile e volatile. Fluido, incontrollabile, dispersivo, soprattutto espressione di interessi contingenti di gruppi e lobby. Il commento di Riccardo Pedrizzi

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