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Una forte esplosione e un bagliore sono stati avvertiti nella notte tra sabato e domenica 5 dicembre a Badroud, nell’Iran centro settrionale. Quando succedono certe cose nel territorio della Repubblica islamica c’è sempre da pensare a sabotaggi di qualche genere, tanto più in questa situazione: Badroud si trova poco distante da Natanz, capoluogo dello shahrestān omonimo dove c’è un impianto nucleare in cui si ritiene che gli iraniani stiano portando avanti i processi di arricchimento dell’uranio.

Tuttavia, mentre vari rumors circolavano sui social network, i funzionari della sicurezza iraniana hanno detto alla tv di Stato che l’esplosione era un test di reazione rapida del sistema di difesa missilistica; hanno detto che quello che in tanti hanno segnalato subito era il risultato della deflagrazione controllata di un’esercitazione. Queste dichiarazioni, nel caso dell’Iran, possono essere reali quanto alterate. Già in altre circostanze le autorità hanno cercato di spostare l’attenzione quando infrastrutture come quella di Natanz sono finite sotto attacco per opera di missioni di sabotaggio — che prevalentemente sono condotte da agenti del Mossad infiltrati.

Il programma nucleare iraniano è da sempre la grande preoccupazione della regione mediorientale, e mentre procedono i negoziati per ricomporre l’accordo del 2015, il Jcpoa, restano in piedi piani-B più o meno operativi (in forma clandestina), per bloccare il processo che Teheran sta portando avanti. Tra questi esiste la possibilità di azioni cinetiche o cyber contro gli impianti, ma anche la costante destabilizzazione attraverso sabotaggi che hanno dal punto pratico l’obiettivo di danneggiare e rallentare quindi il programma, e dal punto di vista psicologico mettere sotto pressione l’Iran.

La Repubblica islamica solitamente usa tre forme di reazione. La prima, minimizza o nega gli attacchi, perché subire colpi all’interno del proprio territorio mal si sposa con il messaggio di forza che il regime vuole inviare (e peggio sarebbe in periodi come questo, in cui migliaia di manifestanti protestano contro il governo per la crisi idrica a Isfahan, qualche decina di chilometri a sud di Natanz). La seconda è prendere posizioni difensiva per denunciare gli attacchi e in largo dimostrare di essere sotto offensiva costante (posizione da cui far valere in positivo le proprie attività, qualcosa come: siamo costretti a farlo per non finire schiacciati).

La terza coinvolge altri attori come le varie milizie sciite che sono collegate con vari fili ai Pasdaran; gruppi armati che sono penetrati nei sistemi socio-economici e politici di diversi Paesi della regione (Iraq, Siria, Libano, Afghanistan) e che hanno all’interno fazioni pronte ad azioni spregiudicate. Questa mattina, la base statunitense in Siria di al Tanf sarebbe finita sotto attacco di razzi Katyusha secondo quanto riportato da Sana (agenzia stampa siriana), ma i portavoce della Coalizione internazionale anti-Is (che si trova nella base) hanno negato di aver subito attacchi.

Al Tanf è stata già oggetto di ritorsioni, così come l’ambasciata irachena di Baghdad oppure in alcuni casi i traffici commerciali del Golfo, affidate alle milizie — e a volte organizzate dalle milizie in modo indipendente. Il contesto temporale è particolare: si è concluso il settimo round dei colloqui per il Jcpoa e la delegazione inviata dalla nuova presidenza conservatrice iraniana ha tenuto posizioni massimaliste ma ottenuto poco se non una linea severa condivisa da tutti gli interlocutori. Possibili sfoghi di tensioni, possibili anche show of force per dimostrarsi capaci di reagire ad attacchi come quello che potrebbe subire Natanz se si dovesse arrivare a un punto di rottura drammatico. L’impianto è costruito sotto una montagna per resistere ai bombardamenti, ragion per cui questa esercitazione è particolarmente significativa, legata alle opzioni hard che restano in mano agli Stati Uniti come l’uso di ordigni tipo la Moab.

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