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Risalgono almeno alla metà degli anni ottanta, con il consolidarsi delle nuove tecnologie informatiche, le prime tracce nel dibattito pubblico italiano sul voto elettronico. Non si trattò di affermazioni condivise: il dibattito, infatti, oscillò tra empiti di entusiastica adesione alla rivoluzione che sarebbe derivata sul piano della qualità stessa della democrazia con l’applicazione delle nuove tecnologie e la diffidenza di chi metteva in luce i pericoli di manipolazione che ne sarebbero derivati con il pericolo di controllo dei sistemi.

In verità le preoccupazioni non apparivano del tutto infondate, tenendo conto di esempi negativi verificatisi in alcune consultazioni elettorali svolte con il voto elettronico in altri Paesi (in particolare negli Usa di George W. Bush junior). Questi episodi costruirono la base argomentativa per legittimare un certo pregiudizio sull’e-polling nutrito dalla burocrazia e formalizzato dal ministero dell’Interno in un Question-time alla Camera nel 2015, in cui il ministro dell’epoca Alfano dichiara “l’inaffidabilità, allo stato dell’arte, di sistemi elettronici applicati all’esercizio del voto” (seduta del 28/7/2015).

Da quel tempo ad oggi, tuttavia, le tecnologie informatiche hanno compiuto importanti progressi sul piano della sicurezza e dell’efficienza, mentre i sistemi tradizionali con cui si perviene all’espressione del voto hanno mostrato in misura sempre di più la loro fragilità e l’esposizione ai rischi di manipolazione e di errori, senza parlare della farraginosità e della lentezza di un sistema arcaico che consente di attingere le informazioni relative ai risultati elettorali dopo che sono trascorsi tempi spesso irragionevoli, mettendo a dura prova la qualità del lavoro dei seggi, soprattutto nel caso di una consultazione elettorale plurima, come sovente accade con l’”election day”.

Qual è, allora, l’obiettivo cui deve tendere ogni buon sistema elettorale, la cui funzione è quella di di trasformare la volontà dell’elettore nella scelta della della rappresentanza, se non quello di rafforzare e di aumentare le garanzie costituzionali che difendono l’organizzazione delle democrazie liberali, i diritti di partecipazione politica dei cittadini e la genuinità delle competizioni elettorali?

Ecco, dunque, che l’”e-poll” si trova oggi a soddisfare pienamente l’esigenza espressa dalla Convenzione europea del 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, diventando strumento della democrazia liberale in grado di garantire il “voto genuino”, cioè personale, segreto, libero, spontaneo, in grado, cioè, di offrire certezze sull’assenza di manipolazioni.

Opportuno, pertanto, è apparso l’intervento del ministro per la Transizione Digitale Colao, volto ad introdurre una piattaforma telematica pubblica per la raccolta digitale delle firme necessarie per l’indizione del referendum. È, finalmente, il conferimento di una legittimazione piena alle tecnologie digitali nella democrazia moderna, in piena coerenza con il Next Generation Eu, il piano europeo di ripresa che punta sulla transizione ecologica e digitale. Adesso, però, cerchiamo di fare un passo in più verso il voto elettronico. C’è un paradosso tutto italiano sul tema: se si riflette con attenzione, infatti, si nota come le consultazioni elettorali (e referendarie) siano ormai le sole occasioni in cui, nella vita civile italiana, centinaia di milioni di dati sono trattati – in prima istanza – esclusivamente a mano e in pochissime ore, costituendo, dunque, a tutti gli effetti, una curiosa anomalia.

Insomma: sarà pure romantico ricordare che continuiamo ad utilizzare la stessa tecnologia che si usava al tempo della rivoluzione francese – matita copiativa e carta – ma forse sarà il caso di aggiornarci. Non per altro, almeno per ragioni di sicurezza. E forse anche di economia, visto che allestire l’ambaradam di 61500 sezioni elettorali ci costa mediamente dai 400 ai 600 milioni di euro per ogni tornata elettorale.

Bene le firme elettroniche per il referendum, ma a quando l’e-polling?

Sarà pure romantico ricordare che continuiamo ad utilizzare la stessa tecnologia che si usava al tempo della rivoluzione francese – matita copiativa e carta – ma forse sarà il caso di aggiornarci. Non per altro, almeno per ragioni di sicurezza. E forse anche di economia. La rubrica di Pino Pisicchio

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