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Stati Uniti e Israele dovrebbero iniziare a lavorare su una strategia comune secondo uno scenario in cui l’Iran sceglie di non tornare all’accordo nucleare Jcpoa. È questo il messaggio che il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, ha passato al capo della Cia, Bill Burns. Lo rivela Barak Ravid, informatissimo giornalista di Axios che aveva anticipato il viaggio a Gerusalemme del direttore dell’agenzia americana.

È possibile che dopo mesi di trattative, in cui dopo ogni riunione qualcuno dei diplomatici presenti annunciava che un accordo era stato quasi raggiunto, adesso Teheran si tiri indietro? Potenzialmente sì. Chi ha negoziato il ripristino dei dettami dell’intesa (ossia lo stop alle violazioni controllate) in cambio della ricomposizione del quadro dell’accordo — ossia del rientro degli americani — ora non è più al governo. La presidenza di Ebrahim Raisi ha iniziato il suo mandato da pochi giorni, ma ancora prima dell’inaugurazione aveva chiesto uno stop ai negoziati.

Raisi è un conservatore, ideologicamente non incline al dialogo con l’Occidente (sebbene nel Jcpoa ci siano anche Russia e Cina, che il neo presidente potrebbe vedere come interlocutori preferenziali). Non è ancora chiaro cosa intenda fare con la politica estera, ma è possibile che per il peso retorico che l’accordo si è portato dietro nella polemica interna in Iran possa scegliere di fermare le trattative. Allo stesso tempo anche sul suo lato politico esistono posizioni pragmatiche che vedono nell’intesa — dunque nel congelamento del programma atomico — l’unica via per rivitalizzare il Paese. Ovviamente attraverso lo sblocco delle sanzioni.

La questione non è solo economica — anche se l’aspetto economico-commerciale è cruciale, in grado di riportare benessere e prosperità. La Tv di Stato ha recentemente ammesso che in Iran ogni due minuti muore una persona a causa del Covid (ogni due secondi c’è un nuovo infetto). Mancano forniture mediche agli ospedali ingolfati. La Repubblica islamica ha accusato le sanzioni statunitensi di ostacolare gli acquisti e le consegne di dispositivi medici da altre nazioni, ma cibo, medicine e altre forniture umanitarie sono esenti dalle sanzioni statunitensi reimposte a Teheran con l’uscita Usa dal Jcpoa.

I cittadini si lamentano, scendono in strada assetati contro la crisi idrica nel Khuzestan tanto quanto esasperati dall’inazione del loro governo contro la pandemia. Criticano la Guida Suprema, Ali Khamenei, che tempo fa ha bloccato gli acquisti di vaccino da Stati Uniti e Regno Unito dicendo che propagava il virus. Una scelta apparentemente ideologica legata anche alla volontà nazionalistica di spingere COVIran Barakat, farmaco casalingo dietro a cui la ragione sanitaria copre la componente narrativa (l’Iran che resiste da solo davanti alle difficoltà) e la protezione degli interessi di gruppi di potere interno vicini alla Guida (dinamica simile a quella alla corsa agli armamenti, made in Iran).

E mentre l’efficacia del vaccino iraniano non è nota, la campagna di somministrazione è molto indietro, con solo il 4 per cento della popolazione che ha ricevuto la prima dose. Tra quei pochi eletti c’è la leadership e la sua cerchia, e questo non contribuisce a sedare le tensioni tra la popolazione. A maggio dello scorso anno, quando l’Iran si auto definiva fuori da una pandemia che non aveva mai tracciato e controllato, l’ex viceministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollhaian annunciava che il suo Paese avrebbe condiviso il know-how acquisito sul Covid con la Comunità internazionale. Era un’altra forma narrativa per dare slancio alla resistenza.

I dati ammessi adesso sono chiari: l’Iran avrebbe bisogno di aiuto, ma chi lo comanda non ha intenzione di ammetterlo per ragioni politico-ideologiche. Abdollhaian intanto è stato da poco nominato al ministero. Sarà il capo della diplomazia del presidente Raisi. Ha visioni pragmatiche, ma è pur sempre un uomo che viene dalle Quds Force dei Pasdaran, l’unità d’élite guidata dall’epico (a proposito di narrazioni in Iran) Qassem Soleimani, ucciso in un raid aereo americano a gennaio 2020.

Anche ammesso che voglia riprendere il dialogo sul Jcpoa, cambierà ritmo e cambierà il modo con cui Teheran ne parlerà. Sopratutto è improbabile (ma in fondo lo era già) che dalla ricomposizione di quell’accordo del 2015 si possa aprire a un negoziato più ampio che comprenda le attività regionali e il controllo del programma dei missili balistici iraniani.

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L’Iran è in difficoltà con il Covid, con l’economia e con il malcontento generale dei propri cittadini. Potrebbe rivitalizzarsi con la ricomposizione del Jcpoa ma, come credono a Gerusalemme, la presidenza Raisi potrebbe non accettare compromessi

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