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C’è un non detto, come si è qui sottolineato più volte, che ha accompagnato la nascita del governo Draghi. Un non detto, o detto solo di striscio, casomai trincerandosi dietro il solito: “ce lo chiede l’Europa”. L’Italia potrà risolvere, anzi sta già risolvendo, l’emergenza epidemiologica; potrà avere buone chance anche di riprendersi economicamente, grazie ai “soldi europei”, ma anche grazie agli spiriti imprenditoriali che nel Paese certo non mancano; ma non potrà dire di essersi rimessa sulla giusta carreggiata, quella delle altre democrazie occidentali, se non risolve i problemi di fondo del suo sistema istituzionale e quelli del suo sistema politico.

Che ciò non sia detto, è perché tocca alla politica risolvere questi problemi non a un “commissario d’emergenza” per quanto di alto profilo sia la sua figura. Il quale però, con la sua stessa presenza e modo d’essere e operare, può favorire la maturazione di questo processo.

È evidente che il tema della giustizia, inteso nel senso più largo del termine, sia uno degli snodi cruciali di questa partita. Che si inserisce nel tema più ampio delle riforme istituzionali e costituzionali; va a intaccare interessi consolidati; soprattutto, esige uno scatto d’orgoglio da parte della politica e una diffusa cultura liberale e garantista fra i cittadini. Da questo punto di vista, la scelta di Marta Cartabia al ministero dà ampie garanzie, che si stanno vedendo nel modo stesso del suo operare: deciso e prudente al tempo stesso, e soprattutto lontano (come il ruolo esige) dai clamori mediatici.

L’altra e sostanziale parte devono però farla i partiti. E da questo punto di vista mi sembra che la Lega di Matteo Salvini e la parte di Movimento che si riconosce in Luigi Di Maio abbiano capito prima degli altri, da differenti sponde e in diverso modo, il nuovo tavolo da gioco e la sua importanza per i destini del Paese.

Diciamo subito che le forze politiche, nessuna esclusa, tranne ovviamente i sempre coerenti radicali, non hanno le carte a posto. Dapprima hanno subito l’iniziativa della magistratura, ovvero della parte di essa più agguerrita e battagliera, nonché partigiana, assecondandone non solo la benemerita lotta alla corruzione ma anche gli sconfinamenti di campo e gli abusi di potere; in un secondo momento hanno invece tentato di utilizzarne le inchieste per un proprio e momentaneo tornaconto, secondo la massima: “giustizialisti con i nemici, garantisti con gli amici”. Si è lasciata così tranquillamente crescere nel Paese una sottocultura illiberale di una giustizia sostanzialistica e frutto di risentimento e voglia di vendetta.

Nuove forze politiche sono nate sulla scia della retorica giustizialista, ultimo e più clamoroso quello appunto dei Cinque Stelle. Si è così perso l’equilibrio fra i poteri (anche se quello giudiziario è più propriamente un ordine) e il potere più forte, quello dei magistrati, come sempre accade in questi casi, non avendo cioè contraltari, si è arroccato in sé stesso, è diventato autoreferenziale, ha usato le sue armi in modo discrezionale e poco trasparente. L’indipendenza si è trasformata in insindacabilità; l’obbligatorietà dell’azione penale in scelta discrezione; la presunzione di non colpevolezza in onere da dimostrare.

Ora si tratta per la politica di rialzare la testa, ovviamente senza vendette e ristabilendo l’equilibrio che c’è in tutte le democrazie. Da questo punto di vista, il momento è favorevole quanti altri mai: sia perché le contraddizioni e le devianze della magistratura sono venute allo scoperto e sono sotto gli occhi di tutti, dal caso Palamara a quello Amara e via dicendo; sia perché effettivamente è l’Europa ad aver condizionato gli aiuti a certe nostre riforme anche in questo campo; sia per certe controverse decisioni giudiziarie come la scarcerazione del pentito Brusca o l’esito del processo all’Ilva che aveva gestito gli stabilimenti siderurgici di Taranto; sia perché a via Arenula non c’è più un ministro immerso in una cultura legittima, forse, ma sicuramente non confacente ai fini della giustizia di uno Stato liberale o a una democrazia occidentale; sia perché, infine, non c’è più un governo in cui l’asse giustizialista muoveva un po’ tutti i fili.

Da questo punto di vista, la posizione netta presa da Di Maio con la lettera al “Foglio”, a parte il caso specifico dell’ex sindaco di Lodi e la “sincerità” o “insincerità” (elementi non politici per definizione) delle sue parole, ha un valore politico e simbolico straordinario. Mentre addirittura politicamente geniale è stata la mossa della Lega di appoggiare i sei referendum radicali su battaglie classiche come la “responsabilità civile” e la “separazione delle carriere”: sia perché, come dicevo, la maturazione deve nascere dai partiti; sia perché in questo modo si dà concretamente una mano alla ministra Cartabia; sia perché la scelta dei radicali come partner è per la Lega all’un tempo garanzia di coerenza e credibilità riformatrice.

L’opinione mia personale è che il processo di ritorno alla “normalità”, cioè di tendenziale “equilibro fra i poteri” dello Stato, sarà non breve, cadenzato da più tappe, e completato solo quando il Parlamento avrà la forza e il coraggio di restaurare quel principio profondamente liberale che era presente nella nostra Costituzione e che sull’onda dell’indignazione popolare fu abolito nel 1993: l’immunità parlamentare. Che è, a ben vedere, una garanzia per tutti, non solo per chi è momentaneamente deputato della Repubblica.

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