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Il segretario di Stato statunitense, Anthony Blinken, è in Italia per partecipare di persona alla riunione della Coalizione internazionale che combatte lo Stato islamico — e con lui quattro dozzine di funzionari di vario genere ospiti del ministro Luigi Di Maio alla fiera di Roma. Si scrive “che combatte” perché a dispetto di quello che larga parte dell’opinione pubblica può pensare la lotta contro il Califfato ha ancora ritmi giornalieri, e sebbene la Coalizione abbia disarticolato la dimensione statuale dell’organizzazione tra Siria e Iraq — compresa l’eliminazione del capo ideologico, il califfo Abu Bakr al Baghdadi — i baghdadisti restano in quella regione una forza strisciante, mentre altrove si espandono addirittura.

Il grande problema del momento è l’Africa, soprattutto quella centro-settentrionale — area di interesse nazionale assoluto per l’Italia. Grazie a nuove alleanze e cambiamenti di strategia i gruppi affiliati all’Is hanno rafforzato la loro posizione in gran parte del continente e hanno costruito i presupposti per la grande espansione. Dopo i recenti successi in Nigeria, Sahel, Mozambico e Repubblica Democratica del Congo, la propaganda dell’Isis pubblicata dalla leadership del gruppo dal Medio Oriente sta sottolineando sempre più l’Africa subsahariana come un nuovo fronte che potrebbe compensare il gruppo per le significative battute d’arresto altrove.

Una recente vicenda in Nigeria è rappresentativa: la Provincia dell’Africa occidentale dello Stato islamico (Iswap) ha ucciso in una battaglia fratricida nella foresta di Sambisa il leader dei Boko Haram, Abubakar Shekau, e la propaganda ha dichiarato che è stato fatto per eliminare un criminale. Non che non lo fosse, ma Iswap è nata dai bokisti e chi ha ucciso il capo jihadista anni fa ne eseguiva gli ordini, ma la narrazione che i nuovi potenti baghdadisti vogliono dare è chiara: l’obiettivo è ottenere la fiducia delle persone, dunque creare proseliti, dunque creare spazi per controllare un territorio e impostarvi una dimensione amministrativa.

L’areale è vasto, le leggi sono lasche, i governi non sono in grado di mantenere condizioni di sicurezza, le popolazioni sono allo stremo (mancano molti dei generi di prima necessità, la povertà dilaga): l’Africa subshariana è un investimento a sicuro ritorno per i jihadisti. Ci sono tutti presupposti per l’attecchimento delle varie istanze e per poter rafforzare le linee dei combattenti: attualmente è l’unico territorio in cui l’Is amministra migliaia di chilometri quadrati. Abu Musab al-Barnawi, il leader dell’Iswap, ha detto attraverso i canali propagandistici del gruppo che intende creare un passaporto e documenti d’identità (come faceva già l’Is nel Siraq): l’obiettivo è creare una collettività califfale.

Barnawi ha ricevuto l’investitura direttamente dal Medio Oriente, quando una delegazione di alti comandanti baghdadisti si è recata nella regione africana per incontrarlo, scrutinarlo, elevarne il rango. Il suo compito, una volta sconfitto Senkaku e decapitato il gruppo nemico, è convincere gli ex bokisti che tutti i musulmani dell’area devono essere protetti. Non più sanguinosi blitz per pagare i combattenti, ma tasse religiose (sui ricchi, per contribuire allo stato islamico), nuovi pascoli, assistenza alle famiglie più in difficoltà. Se riesce nella sua missione, visto anche l’aumento degli armamenti a sua disposizione, il rischio è esponenziale.

Davanti alle istanze progettate, di cui Barnawi è portatore, diventa difficile per i governi locali offrire una reale alternativa a quelle popolazioni, nonché una controffensiva militare. L’Iswap di fatto si muove già tra il confine libico e fino a parti del Benin e Ghana. I risultati di uno sforzo che è stato lanciato nel 2015, mentre a Sirte, sulla costa centrale libica, c’era la terza capitale baghdadista dopo Mosul e Raqqa. Sconfitti a Sirte dalle forze misuratine assistite dalla Coalizione internazionale, gli uomini di Baghdadi sono andati a sud, e hanno iniziato le proprie attività come cellule. Movimenti clandestini, contatti, predicazione, con cui si sono incuneati tra alcune comunità e tribù.

Niger e Mali sono stati recentemente luogo di azioni rivendicate dall’Is e anche in questo caso la sottolineatura propagandistica rimarcava come negli attacchi non ci fossero state vittime “civili”, ma solo “miliziani” che lo combattevano. Si tratta in realtà di proclami: le persone uccise sono state di fatto appartenenti a gruppi armati che il governo ha reclutato tra i civili per combattere gli insorti legati all’Is — reclutamento necessario in quanto le forze regolari, nonostante gli aiuti ricevuti dall’Occidente (anche in termini di presenza sul terreno) non sono in grado di far fronte alla situazione. E davanti alla crescente narrazione baghdadista questa problematica rischia di allargarsi dal fronte militare a quello sociale.

Lo Stato islamico in Africa prova a sfruttare vuoti istituzionali, si mostra come alternativa allo Stato, offre alle comunità ordine e promette miglioramenti delle condizioni di vita. In Mali, due colpi di Stato nel giro di meno di un anno sono d’altronde un fattore attorno a cui fare propaganda, mentre la Francia (da anni impegnata in attività di sicurezza nel Paese) annuncia la riduzione di personale — sostanzialmente per l’impossibilità di gestire la situazione. Un esempio per descrivere la situazione: alcuni leader tribali maliani hanno stretto accordi con i qaedisti del Sahel, nemici dell’Is, per fronteggiare i nuovi equilibri. Anche perché non tutte le fazioni legate all’Isis nel continente hanno adottato la strategia di sensibilizzazione dimostrata dall’Iswap in Nigeria.

La provincia Isis dell’Africa Centrale (Iscap), che opera nella Repubblica Democratica del Congo e in Mozambico, sembra per esempio preferire metodi di coercizione brutale e violenze. I confini nell’est del Paese sono stati teatro di attacchi senza un evidente obiettivo strategico: unico scopo creare un clima di terrore. In Mozambico, gli insorti islamisti che rivendicano connessioni con l’Isis controllano de facto gran parte della provincia irrequieta di Cabo Delgado, anche se il grado di legami dell’Isis tra gli insorti è controverso. “Nel 2020, non c’erano dubbi sul fatto che avessero un sostegno internazionale… e c’erano molti video condivisi in cui mostravano la bandiera dell’Isis”, ha detto al Guardian Joao Feijó, un ricercatore locale. È la testimonianza che il rischio di doppie linee e interconnessioni è l’elemento che entità come la Coalizione intendono combattere.

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