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Jeffrey Feltman, inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, è a Khartum per incontri speciali con le componenti politico-militari sudanesi. Il valore della visita oltrepassa le problematiche del Paese, ma è di carattere regionale, tuttavia occorre inquadrare il contesto.

La crisi istituzionale è “la peggiore e più pericolosa” dall’inizio della transizione democratica, come l’ha definita il primo ministro Abdalla Hamdok. Migliaia di persone stanno protestando, chiedendo all’esercito di rovesciare il governo. A queste rispondono contro-dimostrazioni pro-democrazia, e il tutto avviene a poche settimane da un tentativo di colpo di Stato.

Il Sudan, dall’aprile 2019, a seguito delle proteste di massa contro il dittatore Omar Bashir, è retto in forma congiunta da un sistema civile-militare che dovrebbe garantire tre anni e mezzo di transizione democratica. Sulla base di questa, sebbene non sia ancora definita la data esatta, nei prossimi mesi il generale Abdel Fattah al-Burhan dovrebbe lasciare il suo ruolo di leadership della componente militare in mano a un civile. È questo il contesto da cui scaturiscono le tensioni.

Feltman – diplomatico esperto, già advisor principale del segretario della Nazioni Unite – arriva nel Paese con alle spalle una posizione netta dell’amministrazione Biden. Sia dal Consiglio di Sicurezza nazionale che dal dipartimento di Stato sono arrivati recentemente messaggi di sostegno per il premier Hamdok, mentre Foggy Bottom sta chiedendo ai sudanesi, con messaggi pubblici, di evitare disordini e violenze durante le manifestazioni. Segno di una preoccupazione reale — soprattutto se si vi si unisce il viaggio dell’inviato, il secondo nel giro di poche settimane — che ha diverse ragioni tecniche.

La rinascita democratica in Sudan dovrebbe significare stabilizzazione dopo anni turbolenti. Questa stabilizzazione ha però valore regionale secondo diverse direzioni. Il Sudan è un Paese che per disposizione geografica (e dunque geopolitica) rientra nelle dinamiche collegate al conflitto del Tigray così come in quelle della diga Gerd; due punti critici su cui le attenzioni statunitensi non mancano. Non di meno, il Paese è elemento sostanziale del contrasto alle scorribande dei gruppi armati dell’area (molti jihadisti, affiliate alle sigle terroristiche internazionali). Infine il Sudan, parte degli Accordi di Abramo, è il Paese in cui la Russia vorrebbe realizzare le proprie ambizioni per creare un affaccio navale direttamente sul Mar Rosso – per ora saltato.

Karthum è dunque un Paese strategico all’interno di un quadrante, il Corno d’Africa (di primario interesse per l’Italia, tra l’altro), altrettanto cruciale perché porta che collega (attraverso il Mar Rosso e Suez) il Mediterraneo, quindi l’Europa, all’Indo Pacifico — laddove si dipana un’aliquota fondamentale della strategia di contenimento cinese individuata a Washington.

Il messaggio degli Usa, ripetuto da Feltman, è chiaro e ruota attorno “[al]l’importanza di aderire all’ordine transitorio”. Imprimerlo è più complesso perché ci sono attori regionali, anche partner americani, che stanno boicottando –in forme più o meno esplicite – il percorso puntando su un mantenimento dello status quo che permette loro maggiori garanzie.

L’Egitto per esempio ha approfondito il supporto alla componente militare, mentre Emirati Arabi e Arabia Saudita sono dietro alla Rapid Support Forces — una milizia strutturata che si costituisce come terzo polo per la lotta al potere. Lotta che peraltro è resa complessa anche dalle divisioni interne ai fronti. Come dimostrano le recenti proteste e il tentativo di golpe, Hamdok non gode di un consenso pieno tra i civili.

Perché Washington alza l’attenzione sul Sudan

L’amministrazione Biden sta alzando il livello di coinvolgimento sulla crisi istituzionale in Sudan. Il Paese dall’aprile 2019, a seguito delle proteste di massa contro il dittatore Omar Bashir, è retto in forma congiunta da un sistema civile-militare che dovrebbe garantire tre anni e mezzo di transizione democratica. Ma il rischio è che scivoli in nuovi conflitti con potenziali destabilizzazioni regionali

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