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Non c’è stato nessun ferito tra i militari statunitensi finiti nella notte tra mercoledì e giovedì 21 ottobre sotto un attacco coordinato nella piccola (quanto nevralgica) base militare di al Tanf, che si trova in un’area remota al confine tra Siria e Iraq.

Un funzionario statunitense spiega su ABC News che l’attacco “come minimo” ha coinvolto droni e “fuoco indiretto”, il termine militare per definire i colpi di mortai o razzi. Fonti della sicurezza irachena hanno detto che l’attacco ha coinvolto cinque droni con trappole esplosive ed è stato effettuato dall’interno della Siria.

Non ci sono ulteriori informazioni sugli autori, ma questo genere di azioni sono spesso condotte dalle milizie sciite che si muovono a cavallo del territorio siro-iracheno sotto coordinamento (più o meno diretto) dei Pasdaran. Una delle più attive è la Kataib Hezbollah. La base di al Tanf si trova lungo un’autostrada chiave nel sud della Siria, quasi sull’angolo di confine  con la Giordania (e l’Iraq), ed è circondata da una zona cuscinetto di 35 miglia per prevenire potenziali conflitti con le truppe governative russe e siriane situate nelle vicinanze.

Il piccolo avamposto è l’unica postazione militare americana in Siria che non si trova nelle zone controllate dai curdi siriani nella Siria orientale, dove è posizionata la maggior parte delle mille truppe americane in Siria. Le truppe statunitensi rimangono in Siria come parte di uno sforzo continuo per impedire all’Is di riconquistare terreno all’interno del Paese, ma hanno anche una funzione di contenimento strategico dell’espansione russa e soprattutto iraniana, nonché un ruolo nella ricostruzione del Paese post-guerra civile.

L’importanza della base è elevato, e per questo spesso diventa sfogo di certe azioni. Il più delle volte si tratta di atti di ritorsione rispetto al procedere di dossier internazionali su cui sia una parte dei Pasdaran sia le milizie sciite collegate a essa sono contrarie. Nel caso, il riavvio dei negoziati sul Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 messo in stallo dall’uscita unilaterale trumpiana e che l’amministrazione Biden sta cercando di ricomporre attraverso un dialogo mediato dall’Unione europea che forse potrebbe riportare a breve Teheran al negoziato.

Tutto nonostante l’arrivo al potere di Ebrahim Raisi, presidente conservatore che però potrebbe tenere un approccio pragmatico su certe questioni – anche perché il ritorno in compliance dell’accordo dovrebbe riaprire all’Iran diverse possibilità commerciali. Davanti a ciò – alla possibilità che la Repubblica islamica trovi un accordo con Paesi ideologicamente nemici e tramite questo si risollevi – le forze reazionarie si muovono. Gli attacchi alle basi di al Tanf o Erbil, così come quelli alle sedi diplomatiche di Baghdad, servono per mantenere alto il livello di tensione e mostrare un lato non potabile dell’Iran.

Gli americani temono che l’aumento delle capacità tecnologiche delle milizie (nel caso l’uso di droni) possa produrre più danni e dunque portare la situazione su un piano diverso da quello dell’ingaggio militare. Ossia sul piano dell’impossibilità politica di negoziare. Allo stesso tempo, i reazionari tra i Pasdaran e tra le strutture regionali collegate sperano in questo esito, perché è il modo con cui riescono a garantire la sopravvivenza socio-economica delle milizie, strutture simil-mafiose di cui sono parte.

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