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Da una parte un debito sempre più in bilico, con la ragionevole prospettiva di vanificare gli sforzi della Cina per ritornare a un ritmo di crescita pre-pandemico. Dall’altra l’offensiva su larga scala contro il fintech, una questione domestica, quasi privata, fino a poco tempo fa ma oggi ben al di là dei confini nazionali. E così il Dragone torna a scoprire il fianco, palesandosi ancora una volta fragile dentro e aggressivo fuori.

LE MANI (CINESI) SU WALL STREET

E proprio l’aggressività cinese si è manifestata ancora una volta in queste ore. La vicenda è quella dell’ultima stretta di Pechino (cominciata mesi fa con l’assalto ad Alibaba) sul fintech, materializzatasi con lo spegnimento da parte della Cyberspace Administration of China dell’applicazione di Didi Chuxing, la Uber cinese, dagli store online per presunta violazione delle leggi sulla raccolta dei dati personali dei clienti. L’annuncio, pubblicato domenica sulla pagina WeChat del regolatore, afferma che l’app avrebbe utilizzato illegalmente le informazioni personali dei suoi 377 milioni di utenti attivi. Didi ha affermato che, mentre apporterà le modifiche richieste, i clienti e gli autisti che hanno già scaricato l’app potranno continuare a utilizzarla.

Un particolare non deve sfuggire: Didi è fresca di quotazione a Wall Street, grazie a una delle Ipo più alte del 2021. Questo vuol dire che Pechino ha messo ufficialmente nel mirino società cinesi ma quotate sui listini americani. Obiettivo, tentare di imbrigliare tali aziende per evitare che il patrimonio di dati che esse portano in dote finisca in mani altrui, magari statunitensi. Che la Repubblica Popolare abbia preso la questione molto seriamente lo prova anche l’esistenza stessa della Cyberspace Administration cinese, creata per volere del presidente Xi Jinping.

Come ha raccontato il Wall Street Journal, quello di Didi non è un caso isolato: l’organismo creato da Xi si prepara ad assumerà un ruolo guida nella regolamentazione delle quotazioni estere delle società cinesi. In altre parole, a decidere quale società fintech potrà quotarsi fuori dalla Cina e quale invece non lo potrà fare. E se un’Ipo in terra straniere viene considerata pericolosa per la sicurezza nazionale, viene bloccata. Di più. Dietro il crescente peso dell’agenzia ci sarebbe il desiderio di correggere la mancanza di coordinamento tra le autorità di regolamentazione.

STRETTA SUGLI INVESTIMENTI

Altro sintomo della nuova aggressività cinese, la stretta sugli investimenti esteri annunciata dallo stesso Ministero per il Commercio del Dragone. Obiettivo, aumentare sensibilmente il controllo sulle operazioni industriali in Cina da parte di attori stranieri. Le priorità del governo per i prossimi cinque anni è proprio sottoporre a un maggior controllo gli ingressi di capitale straniero.

Per stessa ammissione del Ministero, la Cina “migliorerà il sistema di revisione della sicurezza nazionale per gli investimenti esteri e aprirà indagini di sicurezza sugli investimenti esteri che influiscono o potrebbero influire sulla sicurezza nazionale”.

LA MINA DEL DEBITO

Tanto zelo fuori casa nasconde però problemi molto seri, a cominciare dal debito. La bomba è nei 121 miliardi di yuan di bond emessi dalle società cinesi e non ancora rimborsati, nonostante la scadenza. D’altronde, il mercato del credito aziendale cinese è il più grande del mondo, dopo gli Stati Uniti e un suo possibile smottamento non sarebbe poca cosa a livello globale. Secondo Bloomberg, il debito societario cinese continua a salire, avvicinandosi pericolosamente alla soglia di guardia, come insegnano i casi Anband e Ping An e ovviamente Huarong.  Ora, consentire a troppe aziende, di fallire (in Cina non sembra valere più il too big to fail) non può che innescare proprio quella crisi sovrana che Pechino vuole evitare.

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