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Scompaiono così, nel silenzio, complice come e più dei loro aguzzini. È la sorte che spetta agli uiguri, un popolo che si sta scoprendo nazione di fronte a una persecuzione sistematica, costante, tremendamente lucida. Un popolo che non vuole rassegnarsi all’oblio.

Musulmani, turcofoni, vivono in Cina, nella regione dello Xinjiang, sono quasi 10 milioni. Cinesi, sulla carta, uno dei 57 gruppi etnici in una popolazione da 1 miliardo e mezzo di persone. Alle spalle, una storia secolare di lotta indipendentista che a più riprese è sfociata in violenza, anche nella connivenza con alcuni gruppi terroristici islamisti.

Tanto è bastato al governo centrale cinese per mettere in piedi un sofisticato sistema di sorveglianza e detenzione di massa, donne, bambini, anziani. Sono già 380 i campi di concentramento fotografati dai satelliti e documentati dalla stampa internazionale. “Rieducazione”, è la terminologia usata dal Partito Comunista Cinese. “Genocidio”, dicono e gridano invece centinaia di organizzazioni per i diritti umani, e, da due settimane, anche il Parlamento inglese, il capostipite dei parlamenti occidentali. Ma il tormento degli uiguri non può essere ridotto solo a una storia di battaglie legali e nomenclature. È anzitutto una storia umana, che, per essere capita, ha bisogno di un volto.

Glielo ha dato questo giovedì l’ambasciata americana a Roma, invitando un gruppo di giornalisti a colloquio con due delle più autorevoli e combattive ambasciatrici della battaglia uigura. Rushan Abbas, 53 anni, americana di nascita, uigura di discendenza, è fondatrice e direttrice esecutiva della “Campaign for Uyghurs”, la più rumorosa non-profit a difesa dei diritti umani per gli uiguri con base a Washington DC. Rahima Mahmut, cantante e traduttrice di successo, è un altro volto riconoscibile della lotta uigura, nata al confine con il Kazhakistan, in una larga famiglia musulmana, che le è stata sottratta dalle autorità quando ha deciso di prestare la sua voce alla battaglia per i diritti. Storie di vite spezzate, introdotte dalla ministra per gli Affari politici dell’ambasciata, Kimberly Krhounek, e moderate dalla voce esperta di Giulia Pompili, giornalista de Il Foglio.

Inizia Abbas, ed è un fiume in piena. “Come si può considerare la Cina del PCC un regime legittimo? Come si può far finta di niente? Eppure l’Europa dovrebbe conoscere bene cosa hanno portato il fascismo e l’ultranazionalismo, la storia dovrebbe insegnare”. La condanna contro Pechino è impassibile, senza appello, proprio come quella pronunciata dalle ultime amministrazioni americane, che ora sono passate dalle parole ai fatti: sanzioni, blocco dell’export, stop all’acquisto di prodotti fabbricati con il lavoro forzato in Xinjiang.

Abbas, però, con il governo cinese ha un conto aperto, personale. Trent’anni di militanza per i diritti umani, un passato da giornalista, e da traduttrice, anche lei, per il Pentagono, nella famigerata Guantanamo Bay, dove decine di terroristi uiguri fondamentalisti islamici sono stati rinchiusi. “Tre anni fa, era l’11 settembre 2018, mia sorella, Gulshan Abbas, medico in pensione, è scomparsa da casa. Avevo appena tenuto un discorso in un think tank, a Washington DC. Per mesi nessuna notizia. Poi, lo scorso Natale, abbiamo saputo”.

Gulshan è stata condannata da una corte locale a vent’anni per “associazione terroristica, con un processo a porte chiuse, nel marzo del 2019. “Dopo due anni di indagini inutili, finalmente la scoperta. Ho cercato di denunciare l’ingiustizia, sono stata attaccata dal Pcc”. Un fuoco di fila. Prima il Global Times, megafono anglofono del partito. Poi un portavoce del ministero degli Esteri, Wang Webin, conferma la condanna: “Terrorismo organizzato”. Lijian Zhao, alto dirigente del ministero, accusa su twitter: Rushan è “un asset della CIA”. “Negli ultimi mesi avevo smesso di parlare, per proteggerla – racconta lei oggi – non è bastato a evitare la rappresaglia”.

Mentre parla mostra alcune diapositive. Racconta cosa c’è dietro il lavoro forzato in Xinjiang, numeri alla mano. Un rapporto del think tank Aspi (Australian Strategic Policy Institute) li snocciola: tra il 2017 e il 2019, almeno 80.000 uiguri sono stati trasferiti al di fuori del Turkestan orientale “per essere comprati o venduti dai governi lovali”. Nel mondo, denuncia il documento, ci sono 83 grandi multinazionali che fanno uso del lavoro forzato uiguro nella loro supply chain.

Complice, dice Abbas, quella nuova Via della Seta su cui Xi Jinping ha scommesso un’intera era politica e che tanti Paesi occidentali, Italia per prima, hanno accolto a braccia aperte, fra memorandum e photo opportunity.

Subentra Rahima, cantante e poetessa, attivista, uigura prima di tutto. “È nata a Ghulja, al confine kazako. Tutto è cambiato dopo Tiananmen, nel 1989, racconta. Da quel momento la repressione ha toccato anche questo popolo musulmano uscito quasi indenne dalla sanguinosa rivoluzione culturale di Mao.

Vive e canta a Londra, Rahima, e da diciott’anni non ha modo di rintracciare o parlare con la sua famiglia. È la pena da scontare per un attivismo che l’ha messa sotto i riflettori del partito. Dal 2017 non ha più notizie di suo fratello maggiore. L’ultima chiamata, quell’anno, è stato lui ad attaccare la cornetta: “Per favore, lasciaci nelle mani di Dio, e noi faremo altrettanto”. Non lo ha più sentito.

“Xi vuole trasformare lo Xinjiang in un’altra provincia dominata dall’etnia Han, considera il nostro popolo “non essenziale”, spiega. “Nella sua Cina gli uiguri hanno solo una colpa: essere nati”. Molti, come lei, vivono all’estero, in una diaspora che si fa più larga negli anni.

A loro, dice Rahima, spetta il compito di mantenere viva la cultura, l’identità di un popolo “cancellato”. “Mio padre era un uomo religioso, mi leggeva tutte le sere un testo sacro. Mia madre viene da una famiglia con generazioni di musicisti e cantanti. Sono cresciuta in una casa grande, separata dalla strada da un frutteto che ci permetteva di pregare e vivere in pace. Mio padre diceva: se una persona prega, non può finire in prigione. Si sbagliava”.

Ora una missione: cantare e raccontare nel mondo la poesia uigura, la tradizione dei canti popolari, delle ninna-nanne cantate dalle madri dello Xinjiang quando si fa sera. “La poesia è l’anima della lingua uigura. Se muore l’anima, muore la lingua, muoriamo noi”.

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