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“Non ci faremo intimidire”, ha detto David Sassoli al Tg1, commentando la decisone russa di inserirlo nella lista persona non grata. “Mossa politica”, ha spiegato il presidente dell’Europarlamento, ricordando che non sarà questo a far cambiare le sue posizioni “in favore della libertà di espressione e di pensiero e in difesa dei dissidenti”, e non sarà questo a fargli smettere di chiedere che il leader simbolico dei dissidenti russi, Alexei Navalny, venga liberato dal carcere.

Navalny — avvelenato questa estate durante quella che pare sia stata una killing mission fallita dell’intelligence russa — è recentemente riapparso pubblicamente. In tribunale, collegato in videoconferenza da un ospedale per detenuti, a difendersi dall’accusa (pretestuosa, politica) di aver diffamato un veterano della Seconda guerra mondiale, s’è mostrato col volto scavato, pallido. Frutto di uno sciopero della fame interrotto da pochi giorni dopo settimane, che ha debilitato il suo fisico già provato.

Giovedì i giudici gli hanno comunicato di aver respinto il suo appello: resterà in carcere. E durante questa settimana la magistratura russa ha anche ordinato la sospensione delle attività del suo network di attivisti (decisa poi dei più stretti collaboratori dell’oppositore russo) e fatto sapere che a febbraio contro l’organizzazione è stato aperto un altro procedimento penale. Tutto in attesa della classificazione come “organizzazione estremista”, sentenza a questo punto praticamente inevitabile.

È una stretta che ha una ragione: il Cremlino sta serrando i ranghi in vista delle elezioni parlamentari di settembre. Vladimir Putin non ha un’opposizione politica nelle assemblee legislative, e detesta la possibilità che il movimento extraparlamentare che la figura di Navalny riesce a catalizzare possa in qualche modo istituzionalizzarsi. L’attivista, blogger, avvocato per i diritti, leader, è l’unico apparentemente in grado di muovere le masse, stanche, contro il potere putiniano che finora le ha indottrinate.

Quella di Putin è una mossa difensiva aggressiva. Le sanzioni contro i leader occidentali, alla stregua dei processi per imbavagliare le opposizioni, valgono come metodo per arroccarsi. Sente che dopo un ventennio di potere qualcosa rischia di sfuggirgli di mano. E sceglie giocate a effetto, da far propagandare alle sue fanfare. Stressa la situazione: ieri, mentre venivano comunicate a Sassoli e altri leader Ue le decisioni contro di loro, al telefono con Mosca c’era il Consigliere per la Sicurezza americana, Jake Sullivan.

Parlava col suo omologo russo, Nikolai Patrushev, la seconda telefonata in meno di due settimane. Nello stesso giorno Patrushev, intervistato da Interfax, ha detto che Usa e Ue stanno “sopprimendo il dissenso” di chi non vuole riconoscere i valori occidentali come esempio universale: forma di contronarrazione a difesa delle limitazioni dei diritti. Certi storytelling, o forse meglio dire infowar, servono ad alterare la percezione di quel che succede, e hanno come primario obbiettivo quello di mantenere la presa sulla collettività russa. In quella intervista Patrushev parla di “russofobia” come sentimento occidentale storico, fa riferimenti all’ingiusto (dice lui) soprannome “il Terribile” per Ivan IV, zar di tutte le Russie (Ivan il Terribile è uno che diceva: “Tutti i sovrani russi sono autocrati e nessuno ha il diritto di criticarli, il monarca può esercitare la sua volontà sugli schiavi che Dio gli ha dato”). Sono metodi che servono a scatenare il nazionalismo dei russi e rifugiare attorno al potere (di Putin).

Mosca e Washington sono ai minimi storici (l’ambasciata Usa in Russia ha annunciato di ridurre del 75 per cento le attività almeno fino a maggio). Ma c’è un incontro tra Joe Biden e Putin da organizzare — a questo si legano le telefonata Sullivan-Patrushev. Sarà a giugno, in un paese terzo (europeo, Vienna s’è già proposta come ospite). Il Cremlino vuol forzare chiunque vorrà relazioni con la Russia a farlo malgrado le varie strette sulle libertà interne. Putin comunica che nel suo paese si fa come vuole lui, e chiunque voglia parlagli deve accettare certe regole e certe narrazioni. È un messaggio a uso interno di un leader che cerca il pugno duro per non perdere il potere.

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