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Siamo proprio sicuri che Mario Draghi abbia sbagliato? È quello che pensano in molti dopo che il presidente del Consiglio ha risposto durante una conferenza stampa che Erdoğan è un dittatore. Potrebbe essere stata una risposta affrettata a una domanda non prevista, dal momento che in quella sede si parlava di tutt’altro. Forse. Ma pochi giorni dopo è stato Joe Biden a sfidare Recep Tayyip Erdoğan chiamando genocidio lo sterminio degli armeni, un gesto mai compiuto da alcun presidente americano.

Forse è una mera coincidenza, ammesso che esitano nel mondo delle relazioni internazionali, ma questo allineamento transatlantico potrebbe risultare molto utile per percorrere la strada della pacificazione in Libia. Un’altra “coincidenza” è significativa. Il 6 aprile per la prima visita di Stato da presidente del Consiglio, Draghi sceglie la Libia e incontra il primo ministro libico Abdelhamid Dabaiba riaffermando così l’interesse dell’ Italia per il Paese.

Lo stesso giorno il Dipartimento di Stato americano pubblica un rapporto sulla situazione dei diritti umani nel 2020 accusando apertamente le milizie di Haftar di assassini arbitrari, sparizioni e torture nella città di Sirte, azioni perpetrate anche nella città di Tarhuna ad opera della milizia Al-Kani.

Nel corso della presentazione del rapporto, il segretario di Stato Antony Blinken ha calcato la mano affermando che gli Stati Uniti useranno tutte le misure a disposizione per difendere i diritti umani nella regione. Una posizione reiterata pochi giorni dopo da Jake Sullivan, il National Security Advisor che non ha esitato ad affermare che azioni erano allo studio “to tighten accountability measures against any party that seeks to undermine the election’s roadmap fixed by the Libyans”, elezioni che si dovrebbero svolgere il 24 dicembre 2021.

Non è un caso che Sullivan abbia sottolineato che le strada delle elezioni sia stata tracciata dal popolo libico. Troppe infatti sono state in questi anni le ingerenze straniere nel paese: Turchia, Russia, Qatar, Egitto, Emirati in primis. Una situazione che ha portato, un funzionario statunitense a definire la Libia “a broken economy, a broken country”: un Paese a pezzi, in mano a diverse entità governative in lotta tra loro, a loro volta appoggiate da milizie e gruppi paramilitari, le une contro le altre armate e foraggiate da potenze straniere in competizione.

L’amministrazione Biden ha fatto sapere che la propria politica estera guarda verso est, all’ Asia ma è evidente  che non può non occuparsi di quanto sta succedendo nel Mediterraneo. Un imperativo che l’Italia conosce molto bene. L’instabilità della Libia è infatti un pericolo per la comunità internazionale tutta. In un Paese di sei milioni di abitanti, circolano più di 20 milioni di armi e non tutte leggere. L’emergenza più evidente – effetto, più che causa, delle molteplici crisi che scuotono il Paese – è quella del terrorismo, sovrapposta e a volte indistinguibile dalla minaccia criminalità comune.

Dai tempi dell’Impero Romano, la Libia è un cruciale territorio di transito per beni e persone sulla rotta che dall’Africa subsahariana porta all’Europa. Durante i 42 anni di potere di Gheddafi, i traffici più pericolosi venivano controllati militarmente dal suo regime, che regolava i flussi a seconda della convenienza politica (ed economica) del momento: una formidabile arma di ricatto nei confronti dell’Europa, e dell’Italia in primis.

Con la caduta del raìs, l’equilibrio si è rotto: la Libia, e soprattutto il Fezzan, lo sterminato e incontrollabile sud del Paese, è diventata un crocevia internazionale del traffico di esseri umani, armi e droga, che richiama attori criminali anche da lontano. I cartelli colombiani della droga, ad esempio, spediscono ingenti quantitativi di cocaina in Guinea e Guinea Bissau e da lì raggiungono l’Europa via l’Algeria, la Tunisia e soprattutto – appunto – la Libia: un traffico che vale circa 1,8 miliardi di dollari l’anno.

La commissione che resta ai trafficanti libici serve ad alimentare i gruppi terroristici che nel triangolo Fezzan-Ciad-Niger trovano rifugio, oltre all’acquisto di armi.

La situazione è altrettanto critica per quanto riguarda il traffico di esseri umani. Fino al 2010, il fenomeno era contrastato, seppure a fasi alterne, da alcuni accordi tra Gheddafi e il governo italiano. Dal 2014, la guerra civile in Siria ha fatto esplodere il fenomeno migratorio attraverso la cosiddetta Rotta del Mediterraneo Centrale, ovvero dalla Libia e in misura minore dalla Tunisia. Si stima che circa il 70% dei migranti e richiedenti asilo che ogni anno arrivano in Europa seguano questa strada.

Infine, e soprattutto, c’è il terrorismo, che in Libia continua a trovare un contesto accogliente. Malgrado la disfatta subita a Sirte alla fine del 2016, il jihadismo è tutt’ora presente nel Fezzan. Protette da territori montagnosi difficilmente accessibili, qui le cellule qaediste hanno costruito campi di addestramento e basi logistiche, da cui lanciare incursione oltre frontiera, dall’Algeria fino al Mali, più rischioso per via della presenza di truppe francesi.

Migrazione e terrorismo sono le due sfide che vedono l’Italia e gli Stati Uniti alleati nella comune causa libica.

E molto possiamo fare insieme: gli Usa possono usare tutta la loro credibilità internazionale per convincere gli attori stranieri presenti in Libia a fermare le guerre per proxy che dilaniano il paese. Possono continuare ad usare strumenti militari per contrastare il terrorismo. E l’Italia può agire su tre fronti. Il primo è quello di creare un consensus europeo sulla linea di azione da adottare in Libia grazie all’autorevolezza di cui gode in Europa Mario Draghi. Il secondo è quello economico: il ruolo dell’ Italia è fondamentale per garantire al governo le entrate di cui ha bisogno per sostenere i bisogni della società civile.  E il terzo è quello dell’utilizzo della nostra intelligence che grazie a una presenza sul terreno può capire meglio di qualunque altro Paese le esigenze del territorio fornendo così all’esecutivo un quadro informativo essenziale per indirizzare la propria azione.

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Gli Usa possono usare tutta la loro credibilità internazionale per convincere gli attori stranieri presenti in Libia a fermare le guerre per proxy che dilaniano il Paese. Possono continuare ad usare strumenti militari per contrastare il terrorismo. E l’Italia può agire su tre fronti. L’analisi di Leonardo Bellodi

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