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Migliaia di persone sono scese in strada a Mekelle per festeggiare l’abbandono della città da parte delle autorità etiopi e l’ingresso — per prenderne il controllo — delle forze del Fronte Popolare di liberazione del Tigray (Tpfl). Non è la fine della guerra del Tigray, che dura da otto mesi e ha prodotto condizioni umanitarie complicate, ma è un passaggio importante.

L’esercito etiope ha occupato la regione del Tigray da novembre. I ribelli indipendentisti del Tplf hanno trascorso mesi a raggrupparsi e reclutare nuovi combattenti. La scorsa settimana, hanno iniziato un contrattacco verso la capitale della regione, Mekelle, e prodotto una battuta d’arresto significativa per il primo ministro Abiy Ahmed – che a novembre 2020 dichiarava di aver vinto la guerra.

Un funzionario del governo regionale spiega che le forze del Tigray sono entrate in città e hanno preso il controllo dell’aeroporto e della rete di telecomunicazioni. Il governo etiope ha dichiarato di aver chiesto un cessate il fuoco e in un comunicato del governo del premier Abiy Ahmed  spiega di “aver accettato l’offerta” per la durata della stagione agricola, dunque fino a settembre.

In realtà il governo ha proposto lo stop alle armi più che averlo accettato: è corso ai ripari — quanto meno nei termini della narrazione —  dopo che le Tplf erano arrivata al punto di prendere il controllo della città, dove è stata istituita un’amministrazione provvisoria. I tigrini — la cui branca armata a maggio è stata inserita dal governo nella lista delle organizzazioni terroristiche — hanno dichiarato di essere disposti a collaborare con l’esecutivo federale.

Sprofondato nel caos di un conflitto civile, il governo del premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed si è dimostrato incapace di gestire la crisi se non con l’uso a tratti brutale della forza. La guerra ha prodotto migliaia di morti e secondo le stime 1,7 milioni di sfollati: condizioni che hanno portato l’Onu a dichiarare la situazione alimentare “catastrofica”. Su queste colonne, l’attuale rappresentante speciale Ue per il Sahel, l’ex ministra degli Esteri Emanuela Del Re, in un’intervista aveva lanciato un appello per la tutela degli aiuti internazionali. Venerdì scorso tre operatori umanitari italiani sono rimasti uccisi durante gli scontri, che nelle ultime settimane hanno raggiunto i livelli più alti di violenza.

La crisi del Tigray ha “vanificato tutti i progressi fatti nel processo di transizione cominciato solo tre anni fa. E aver tenuto le elezioni parlamentari in un contesto simile rischia di ridurre la legittimità del governo in carica”, ha scritto l’Ispi in un’analisi della situazione. Il 21 giugno si sono celebrate quelle che teoricamente sarebbero le prime elezioni libere della storia dell’Etiopia, ma le opposizioni hanno boicottato il voto (che per altro non si è svolto in tre regioni del paese, Tigray incluso chiaramente, che rappresentano l’11 per cento dei seggi in Parlamento).

Le vicende tigrine si svolgono in una regione, il Corno d’Africa, centro di attenzione di molte potenze internazionali (come l’Italia) e diverse realtà locali. Se la punta orientale del continente africano forma un naturale modo talassocratico tra Mar Rosso e Oceano Indiano, la zona etiope è anche punto di contatto per le dinamiche del Nilo. Ognuno muove i propri interessi. Per esempio, l’Eritrea è immediatamente entrata in guerra contro le Tplf per regolare i conti con il gruppo che è considerato ostile anche da Asmara. Altrettanto il Sudan, diviso dall’Etiopia per via delle dinamiche della diga Gerd ha cercato di sfruttare la concentrazione etiope sul Tigray per riappropriarsi di strisce di territorio conteso al confine, e l’Egitto (altra controparte interessata alle questioni della diga) valuta positivamente la crisi etiope perché pensa che possa distrarre Addis Abeba dagli interessi sull‘acqua del Nilo.

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