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Renato Brunetta, ministro della Funzione Pubblica, non ha tutti i torti. Lo smart working, espressione entrata nel linguaggio comune causa pandemia, in molti casi non è così smart. Anzi, con ogni probabilità si avvicina a un  realtà, ha scritto oggi sul Foglio il ministro: il lavoro agile ha davvero ben poco di agile, semmai è una specie di “self service working” che ognuno definisce come gli pare. Di qui la battaglia per riportare il grosso dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici in ufficio, per poi definire una strategia organica e strutturata.

“Il lavoro da casa durante l’emergenza Covid”, ha scritto Brunetta, “non ha certamente consentito quei processi di trasformazione organizzativa nell’ottica della definizione di obiettivi prestazionali specifici e misurabili volti a riconoscere maggiore autonomia e responsabilità del dipendente, che invece dovrebbero essere al centro dell’adozione dello smart working”.

Il problema è che lo smart working “ha visto la mancanza di una alternanza con la prestazione in ufficio e nessuna attenzione ai tempi, al famoso diritto alla disconnessione, con i vantaggi e gli svantaggi, anche in termini di gestione dei carichi familiari, legati alla necessità di adibire una dimora privata al luogo di svolgimento principale dell’attività lavorativa, a cominciare dalla postazione per finire all’utilizzo di laptop e computer personali. Nessun coinvolgimento adeguato delle parti sociali è stato fatto affinché si contemperasse una prestazione di lavoro adeguata al rispetto dei valori e dei diritti dei dipendenti pubblici. Nessuna conoscenza acquisita nel tempo sul benessere del lavoratore e dell’ambiente di lavoro in cui opera è stata oggetto di ripensamento in chiave smart”, ha chiarito il ministro azzurro.

Formiche.net ha chiesto un commento a Michele Tiraboschi, docente e coordinatore scientifico di Adapt, l’associazione di studi sul lavoro fondata da Marco Biagi. “Brunetta ha ragione e fa notare essenzialmente due cose. Primo, l’utenza non è soddisfatta di questa modalità di lavoro. E poi, se alcune amministrazioni hanno reagito bene allo smart working, molte altre non lo hanno fatto. Secondo, Brunetta da studioso delle relazioni industriali ha ricordato che il lavoro agile in realtà è puro e semplice lavoro da casa. Questo per dire che un conto è dire che si lavora tutti da casa senza regole e contratti, rompendo le righe, un conto che si lavora sì da remoto ma in presenza di norme precise. Il problema di fondo è che noi ci siamo innamorati dell’etichetta smart working ma senza conoscerne la sostanza”, spiega Tiraboschi.

“Non si tratta solo di trasferire gli uffici, ma di lavorare secondo certe regole. Per questo parlare di abbaglio non è un errore. Non dimentichiamoci che anche se i dipendenti pubblici torneranno in ufficio, il 15% di essi rimarrà in regime di lavoro da remoto”, prosegue l’esperto. “Vogliamo parlare di smart working? Parliamo di soddisfazione dell’utente, di qualità del servizio, allora sì che possiamo cominciare a parlare seriamente di lavoro agile. Insomma, serve una visione, una struttura, un’idea, una organizzazione, sennò il lavoro agile è solo un tana libera tutti. Diciamolo, questo, ai guru della sociologia”.

Brunetta e lo smart working all'italiana. Che non funziona. Parla Tiraboschi (Adapt)

Il ministro torna a smontare i miti del lavoro agile, che finora è stato solo uno spostamento fisico e non una rivoluzione organizzativa. Tiraboschi, coordinatore scientifico di Adapt: il lavoro agile deve avere una visione e delle regole precise, sennò è solo un tana libera tutti che non giova a nessuno

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