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“Gli occhi di Joe Biden e dell’America non sono puntati su Kabul, ma su uno scuolabus”. È nelle classi, non in Afghanistan, che si deciderà il destino di questa amministrazione americana. Ne è convinto David Unger, professore di Storia delle relazioni internazionali alla Johns Hopkins e firma di lungo corso del New York Times. “La grande scommessa di Biden inizia ora”.

La fuga precipitosa da Kabul non avrà conseguenze sulla popolarità di Biden?

Kabul non è il fattore più importante in termini elettorali. Sono immagini drammatiche, certo, la memoria del Vietnam è ancora viva. Ma gli americani sanno anche che Biden ha portato a termine una sua battaglia combattuta già durante l’amministrazione Obama.

Quale?

All’epoca, da vicepresidente, si è opposto al rinforzo delle truppe in Afghanistan chiedendo invano a Obama di limitarsi a operazioni anti-terrorismo.

Ma nel 2003 il senatore Biden ha dato luce verde all’intervento in Iraq.

È vero, lo hanno fatto quasi tutti. Ma per formazione politica, fin dai tempi del Vietnam, Biden è contrario all’uso della forza militare all’estero. Pronunciare un discorso alla nazione come quello di due giorni fa richiede un coraggio non comune in America.

È stato definito un discorso pacifista. È così?

Più che pacifista, pragmatico: Biden conosce la storia dei suoi predecessori democratici. La guerra in Corea ha distrutto la popolarità di Truman. Eisenhower l’ha chiusa nel giro di sei settimane, è stata la sua fortuna. Anche Johnson ha rinunciato alla rielezione dopo il caos in Vietnam. Ma c’è di più.

Cioè?

Come Obama e Trump, Biden è convinto che Cina e Russia siano le due grandi minacce da combattere. Ha capito la strategia di Xi Jinping: sperare di vedere gli Stati Uniti impantanati in Medio Oriente per avere mani libere nel Mar Cinese Meridionale. Dietro a questo ritiro c’erano solide ragioni di sicurezza nazionale.

Ci sarà un impatto sulle elezioni di mid-term?

Come tutte le elezioni recenti, anche queste saranno molto divisive. Biden può contare su 50 voti al Senato, ha una maggioranza precaria. Ha una sola carta da giocare per ottenere il margine necessario: portare dalla sua la working class bianca.

Come?

A differenza della Clinton, Biden ha un forte appeal su questa constituency. La strategia “Buy american”, il piano infrastrutture e la campagna per i vaccini sono musica per le loro orecchie.

Il ritiro dell’Afghanistan dovrà pur avere un peso alle urne.

Sull’Afghanistan c’è una percezione alterata dei media occidentali. Se oggi un sondaggio chiedesse agli americani un parere sulla decisione del ritiro, più del 90% si dichiarerebbe d’accordo. Ovviamente il consenso scende sulle modalità del ritiro.

I repubblicani lo useranno come pungolo?

Stanno cercando in tutti i modi di cavalcare l’onda. Dopotutto le immagini di caso hanno fatto il giro del mondo, sono morti 13 americani e molti altri sono ancora intrappolati a Kabul. Non è facile però spiegare all’opinione pubblica perché la fine di una guerra ventennale, che ha bruciato trilioni di dollari e finanziato un governo corrotto, sia una sconfitta. Senza contare che è stato il leader dei repubblicani, Trump, a firmare un anno fa l’accordo con i talebani.

C’è da aspettarsi un ritorno del Tycoon?

È prematuro parlare di un ritorno di Trump. Il suo candidato in Texas ha perso, molti altri sono in corsa alle primarie. C’è ovviamente una classe di giovani repubblicani che non sarebbero in politica senza Trump, a lui devono tutto. Altri “senior”, come Rubio o McConnell, preferiscono non dargli contro perché sanno che sarebbe un danno al partito. Questo non significa che facciano il tifo per lui.

Si ricandiderà?

Ha poco da perdere, questo è sicuro. Anche se nel 2024 Trump fosse forte il 90% della sua versione del 2020, uscirebbe sconfitto dal voto. Molto dipenderà da come si muoveranno alcune constituencies molto dinamiche, come la comunità ispanica, scivolata sorprendentemente a destra alle ultime elezioni.

A Washington c’è chi crede al Trump-bis?

C’è la comune sensazione che da qui a dieci anni la legacy trumpiana sarà molto se non del tutto erosa. I repubblicani non hanno alcuna intenzione di finire ostaggio di un leader politicamente e legalmente vulnerabile come Trump. Proveranno a liberarsene, come i democratici si sono liberati del fardello Clinton.

Torniamo a Biden. Che dire dell’economia? L’inflazione galoppa…

L’inflazione è il male minore, si sgonfierà da sola nei prossimi mesi. La Fed ha già chiarito di essere pronta a tirare la cinghia qualora vedesse un trend preoccupante. Il vero cruccio della Casa Bianca, semmai, è il ribilanciamento delle catene di fornitura, soprattutto quelle di beni essenziali come i metalli rari.

Quali sono allora le vere sfide della presidenza?

Il virus, prima di tutto. Gli occhi degli americani non sono su Kabul, ma sul bus che di qui a pochi giorni riporterà i loro figli a scuola. Biden ha costruito la sua presidenza su una grande scommessa: la vaccinazione di massa, la sconfitta della pandemia.

Come sta andando?

La variante Delta gli ha rovinato i piani. Ha dimostrato che i vaccini non sono una bacchetta magica. E oggi tanti americani rifiutano di vaccinarsi, un’altra divisione sociale e geografica nel Paese. Mentre parliamo, i ragazzi stanno tornando a scuola, diversi Stati hanno deciso di eliminare le mascherine obbligatorie. Qui, non in Afghanistan, si decide il destino della Casa Bianca.

Altro che Kabul, Biden teme gli scuolabus. Unger spiega cosa toglie il sonno al presidente

È la pandemia e il ritorno dei ragazzi nelle scuole a preoccupare il presidente. Sulla sconfitta del virus si gioca la scommessa della sua presidenza, dice David Unger, professore alla John Hopkins e già firma del New York Times. Trump? Non ha nulla da perdere, ma la ricandidatura è in salita

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