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Da noi come altrove, il Covid ha inferto un duro colpo all’organizzazione sociale e all’economia, ma ha anche impartito una serie di lezioni di cui non si potrà non tenere conto in futuro.

In generale ha reso evidenti i limiti della globalizzazione, e la stessa velocità con cui la pandemia si è diffusa in ogni angolo del pianeta è un effetto collaterale della stretta interconnessione tra i diversi paesi.

Cesare Greco

La possibilità di delocalizzare intere filiere produttive lì dove maggiore era la convenienza economica, se in condizioni normali per molte aziende è stata una grande possibilità di crescita e aprirsi a nuovi mercati, ha però contribuito, e non poco, ad aumentare le difficoltà di molti sistemi sanitari nel fronteggiare l’emergenza. L’Europa lo ha sperimentato fin da subito, quando la improvvisa carenza di strumenti di protezione e supporto terapeutico, la cui produzione era da tempo stata spostata fuori dal continente, ha provocato una vera e propria ondata di panico, una corsa all’acquisto con tutto il conseguente corollario di truffe e distribuzione di strumenti spesso inadeguati, non controllati qualitativamente e perfino rischiosi per chi li utilizzava.

Stessa cosa si è verificata sul versante vaccini, l’unica arma capace di sconfiggere il virus e riportare alla normalità la vita delle persone. La totale dipendenza dalle produzioni estere ha rallentato drammaticamente la possibilità di tenere il passo delle economie più direttamente concorrenti, in grado di produrre in casa le quantità di farmaci necessarie e, per questo, avvantaggiate nel somministrarli più rapidamente ed estesamente alla propria popolazione.

E’ stata una lezione dura, che impone un ripensamento della politica industriale. L’Europa deve riportare al proprio interno produzioni che, contrariamente a quanto ritenuto fino ad ora, si sono rivelate strategiche, così come strategico si è rivelato il corretto funzionamento del sistema sanitario. Il Covid ha reso evidente quanto una adeguata offerta nel campo della salute sia decisiva per garantire un corretto ed efficace funzionamento del sistema paese.

In Italia il sistema sanitario ha messo in evidenza enormi carenze organizzative e gestionali, conseguenze di una serie di discutibili riforme susseguitesi dalla fine del secolo scorso in poi. Dalla regionalizzazione, che ha di fatto creato 20 sistemi autonomi e totalmente diversi, alla burocratizzazione eccessiva delle decisioni, affidate ad un sistema di gestione profondamente clientelare e contrario a qualsiasi principio di trasparenza e correttezza. Quello della sanità regionale è, fra l’altro, forse l’unico caso in cui le funzioni di committente, erogatore e controllore sono attribuite allo stesso soggetto.

Un perfetto sistema per garantire opacità e mancato controllo degli enormi sprechi continuamente denunciati da enti di ricerca e dalla stessa magistratura contabile. In una cosa, però, tutte e venti le regioni hanno mostrato di avere portato avanti una politica simile: l’avere progressivamente smontato la sanità territoriale, l’assistenza di prossimità, soprattutto per anziani e pazienti fragili, a favore di una visione ospedalocentrica, e le cui conseguenze si sono drammaticamente evidenziate nella caotica gestione della pandemia, specie nella prima fase.

L’ultimo scontro in ordine di tempo tra Governo e Regioni riguarda le mille concessioni fatte dalle amministrazioni locali alle varie lobby che, forti del loro peso elettorale, hanno chiesto, spesso ottenendolo, di essere inserite tra le categorie da vaccinare per prime, infischiandosene delle linee guida nazionali e rischiando di ritardare significativamente la tanto agognata immunità di gregge.

Questa disparità nella organizzazione della somministrazione del vaccino, la mancanza di una uniformità di applicazione dei protocolli, sta finendo per creare, tra le varie regioni, una differenza significativa nella messa in sicurezza della popolazione anziana e fragile, le categorie nelle quali si distribuiscono la stragrande maggioranza delle forme più gravi e dei decessi, e quindi indispensabile per ridurre la morbilità e la mortalità da virus declassando la pandemia a quasi semplice influenza.

Tutto ciò finirà per provocare una ovvia disparità nella possibile riapertura delle attività produttive. Un vero boomerang, anche per chi ha pensato di cavarsela prima degli altri. In sostanza, ancora una volta, sarà la popolazione in generale a pagare la scorretta gestione delle amministrazioni a favore di miopi interessi di gruppi di potere locale.

Ma è da oltre un anno, da quando cioè il virus ha cominciato a colpire duro nel nostro paese, che il braccio di ferro tra presidenti di regioni e governo centrale sta creando seri problemi alle politiche di contenimento della diffusione della malattia, così come ora anche ai protocolli di somministrazione del vaccino.

Se da una parte il Covid19 ha messo in ginocchio l’economia del nostro paese, dall’altra ha portato alla luce una serie di criticità che in molti vedevano e denunciavano, ma che erano stati nascosti sotto il tappeto dell’autoreferenzialità, fingendo che non esistessero e, anzi, portando avanti una narrazione affatto opposta.

Così la “sanità migliore del mondo”, il sistema più democratico perché posto sotto il diretto controllo del popolo attraverso i suoi rappresentanti eletti nelle amministrazioni regionali, non ha retto l’urto e ha finito per mostrare tutti i suoi limiti e le contraddizioni che la regionalizzazione si portava dietro e che si faceva finta di non vedere.

Questa emergenza prima o poi, e nonostante tutto, passerà, ma sarebbe gravissimo dimenticarne le lezioni e non correggere i molti errori di cui abbiamo tutti pagato e pagheremo le conseguenze.

Cosa dobbiamo imparare dalla pandemia. Il punto del prof. Greco

Di Cesare Greco

La “sanità migliore del mondo” non ha retto l’urto e ha finito per mostrare tutti i suoi limiti e le contraddizioni che la regionalizzazione si portava dietro. Dai vaccini all’economia, Cesare Greco, professore associato di Cardiologia all’Università La Sapienza, mette in fila quello che è andato storto, nella speranza di non farsi cogliere impreparati in futuro

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