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L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio ha rivelato il vero impatto sociale della teoria cospirazionista nota come QAnon. Da allora le piattaforme social – le vere catalizzatrici di un movimento nato nelle periferie più remote di internet – hanno stretto le maglie dei loro algoritmi per limitare la disinformazione, con discreto successo. Il laboratorio di forensica digitale dell’Atlantic Council ha registrato un forte calo dei termini utilizzati dagli adepti di QAnon nella parte mainstream di internet, e secondo il German Marshall Fund le interazioni con fonti di notizie ingannevoli sui social sono diminuite pesantemente nei primi mesi del 2021.

Problema risolto, dunque? Niente affatto. Dal mondo “offline” arrivano segnali poco confortanti, che evidenziano come le narrative cospirazioniste di QAnon (tra cui primeggia la teoria che vede il mondo dominato da una cabala occulta di pedofili satanisti) continuino a diffondersi e radicarsi in una parte consistente della popolazione.

Secondo un nuovo sondaggio realizzato dal Public Religion Research Institute, il 15% degli americani crede nella teoria di cui sopra; il 20% pensa che un evento escatologico, una “tempesta che spazzerà via le élite al potere e ripristinerà i leader legittimi”, sia prossimo; il 15% ritiene che “un vero patriota americano” possa dover ricorrere alla violenza per “salvare la nazione”.

Il fondatore del Prri Robby Jones ha detto che il numero di adepti di QAnon (più di 30 milioni solo negli Stati uniti) equivale a quello dei fedeli di uno dei grandi gruppi religiosi americani. “Stiamo assistendo all’evoluzione dell’ecosistema dalle ideologie, alle culture, alle pseudo religioni”, ha rimarcato il professor Arije Antinori, professore di Criminologia e Sociologia della Devianza alla Sapienza di Roma, raggiunto da Formiche.net.

Forse l’aspetto più preoccupante del sondaggio Prri ha a che fare con il 46% degli intervistati che non abbracciano i principi base di QAnon, ma nemmeno li rigettano totalmente. In altre parole, quasi la metà degli americani non disdegna completamente le informazioni provenienti dal vasto e mefitico ecosistema di teorie che vanno dal cospirazionistico al sovversivo, passando per il violento.

Per Antinori le radici di questo fenomeno non vanno cercate nel mezzo – internet e i social – quanto nella sociologia e nel momento storico, caratterizzato dall’accrescersi dei conflitti sociali e del divario tra la classe medio-alta (con il “medio” in via di scomparsa) e quella operaia che continua a ingrandirsi. La galassia di QAnon offre ai disillusi un rifugio rispetto alla compressione delle aspettative nel futuro e il risentimento, indica un nemico occulto e già demonizzato, responsabile del “degrado”.

QAnon è un contenitore amorfo in continua evoluzione, un patchwork magmatico di teorie. Poggia sulla contaminazione tra fenomeni completamente diversi che riescono a coesistere perché il collante è l’elemento di rivalsa (tanto che Antinori parla di “cospireazionesimo”). Il tutto amplificato dall’esperienza di una massiccia comunità online che – paradossalmente – mette al centro l’individuo, incapsulato nel motto where we go one we go all.

È proprio questa la differenza rispetto alla propaganda “classica” capace di unire e muovere le masse contro un nemico (fenomeno di cui il Novecento ci offre i migliori esempi): grazie alle singole connessioni dei singoli utenti, “la polarizzazione collettiva e la deindividualizzazione hanno lasciato il posto all’individualismo globalizzato”, elemento che Antinori identifica come la chiave di volta per capire QAnon e i suoi simili. La cultura incel, il neonazismo digitale, ma anche il takfirismo, sono tutte “sette globali” e transculturali fondate sulla radicalizzazione di un’identità.

Il punto è che fenomeni come QAnon vanno a colpire la percezione singola dell’individuo; un potenziale adepto si radicalizza autonomamente, più si addentra nella galassia di teorie e più la sua visione del mondo si innerva di esse. Soprattutto, ognuno di noi è permeabile: l’ibridazione del mondo offline e quello online è già realtà, tanto che il professor Antinori esorta a concepire il nostro vissuto connesso come “onlife”. In breve, viviamo già in un “ecosistema cyber-sociale”, la nostra identità è già (in)formata da internet. E questo apre la porta a nuovi tipi di minacce.

Tradizionalmente siamo abituati a compartimentalizzare i pericoli (una nazione ostile, un’arma), ma questa concezione di conflitto non è più adatta al mondo reale ibridato con quello digitale, dove le minacce possono convergere virtualmente, destrutturarsi, senza il bisogno di un punto di ancoraggio. Chiunque, in qualsiasi parte del mondo, può essere influenzato per mezzo di internet; figurarsi dunque se è una potenza ostile a iniettare disinformazione nelle vene delle democrazie, avvalendosi dei social e della profilazione per distorcere la visione del mondo di un singolo cittadino a proprio vantaggio.

L’esempio perfetto della minaccia ibrida è stato dato dagli eventi di Capitol Hill. Perciò è inutile costruire difese informatiche e infrastrutture di controllo della rete se prima non si protegge l’ecosistema cyber-sociale, ha concluso Antinori. La velocità di sviluppo degli strumenti per contrastare le infodemie non può reggere il passo con quella dell’evoluzione della cultura online, come dimostrano i rapporti di cui sopra.

La soluzione non passa dalla censura in seno alle piattaforme ma dalla consapevolezza, ossia l’educazione, tempestiva e trasversale, della popolazione. “Alfabetizzazione digitale, igiene digitale, cittadinanza digitale e identità digitale”, iniziando dai giovanissimi nelle scuole primarie (poiché nell’istante in cui un ragazzino riceve un telefono è già diventato un cittadino esposto al pericolo ibrido della onlife) e adeguando l’insegnamento a seconda delle generazioni.

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