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Le recenti sanzioni con cui la Ue ha deciso di colpire 6 Paesi accusati di violare i diritti umani (Cina, Russia, Libia, Sudan, Eritrea e Myanmar) hanno riportato l’attenzione sulle cosiddette catene di approvvigionamento sostenibili. La violazione di tali diritti non è appannaggio esclusivo dei Paesi emergenti, più poveri o in guerra.

Lo scorso luglio, un grave scandalo ha colpito Boohoo Group Plc – fashion house inglese molto famosa tra i giovanissimi per la moda low cost-ultra fast. Le azioni della società, quotata sul London Stock Exchange, persero oltre il 40% a seguito della notizia, pubblicata dal Sunday Times, secondo cui i lavoratori di un fornitore venivano tenuti in condizioni di moderna schiavitù e pagati meno di quattro sterline l’ora. A Leicester, città nel cuore dell’Inghilterra. La risposta di Boohoo è stata immediata: ha incaricato un noto magistrato in pensione di svolgere un audit indipendente, ha avviato la radicale revisione della filiera di fornitura e – pochi giorni fa, il 25 marzo – ha annunciato un rigoroso programma di visite a sorpresa nei siti produttivi e reso pubblico l’elenco di tutti i fornitori e sub-fornitori.

Lo scandalo che ha coinvolto Boohoo Group è un esempio, purtroppo non isolato, di catena di approvvigionamento non sostenibile. La non sostenibilità, oltre che nella violazione dei diritti umani, può derivare dalla mancata tutela dell’ambiente: molti ricorderanno la campagna promossa da Greenpeace nel 2010 contro la Nestlé, accusata di contribuire alla distruzione delle foreste pluviali indonesiane a causa dei fornitori di olio di palma. Anche in quel caso la pressione dei media fu così forte da imporre alla multinazionale una profonda revisione delle reti di fornitura e degli stessi processi produttivi.

Le catene di approvvigionamento rappresentano la nervatura del sistema mondiale degli scambi internazionali. Le imprese multinazionali ne sono i principali motori e le Piccole e medie imprese (Pmi) ne costituiscono un elemento essenziale. Con il termine supply chain si comprendono tutti i soggetti, le risorse, i materiali, le attività e le tecnologie riguardanti l’intero processo produttivo, dalla progettazione alla vendita del prodotto finito al consumatore finale. Solo per dare un ordine di grandezza, le catene di fornitura delle imprese multinazionali danno lavoro a circa 500 milioni di persone e costituiscono oltre l’80% del commercio internazionale (dati Unctad/Oil). Le aziende di maggiori dimensioni arrivano ad avere filiere di più di 100 mila fornitori diretti e reti di produzione e logistica ramificate in oltre  centocinquanta Paesi.

La guerra dei dazi e le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina hanno contribuito al processo di scomposizione delle catene di approvvigionamento tradizionali, che restano globali ma ormai tendono ad aggregarsi su basi regionali per aree di influenza. L’evoluzione delle attuali supply chain in nuovi ecosistemi tecnologici, sempre più divisi e sofisticati, ha riguardato soprattutto l’industria dei semiconduttori, delle telecomunicazioni e della difesa. Anche in altri settori le tensioni internazionali e, da ultimo, la pandemia Covid-19 hanno imposto alle imprese di considerare il reshoring o l’inshoring di attività strategiche, o quantomeno la ricerca di fornitori alternativi. Tuttavia, come è facile intuire, si tratta quasi sempre di interventi costosi e di notevole complessità.

Il programma di transizione ecosostenibile dell’Unione Europea (Green Deal Europeo e Recovery Fund) si poggia anche sulla riforma e il rafforzamento delle filiere di fornitura. In particolare, entro il 2021, è atteso il progetto di Regolamento Ue sulle catene di approvvigionamento sostenibili, che dovrà fissare i requisiti vincolanti per le imprese e armonizzare gli standard di rendicontazione al mercato. In tale direzione, lo scorso settembre il Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) ha individuato i punti di riferimento della prossima riforma, in primo luogo gli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Agenda 2030 e i principi guida su Imprese e Diritti Umani (Pgnu) delle Nazioni Unite; in secondo luogo, le Linee Guida per le Imprese Multinazionali elaborate dall’Ocse. La riforma mira dunque a due obiettivi principali: assicurare il lavoro dignitoso e promuovere la condotta responsabile delle imprese sotto il profilo sociale e dell’ambiente.

Il primo gennaio 2021 è entrato in vigore il Regolamento Ue sui minerali provenienti da zone di conflitto, applicabile a tutte le imprese importatrici degli Stati Membri, per molti versi questo regolamento è un’anticipazione del futuro modello normativo sulle supply chain sostenibili. Il regolamento è incardinato su un sistema di due diligence (dovuta diligenza) obbligatoria volto a contrastare il commercio di quattro metalli (stagno, tantalio, tungsteno e oro), spesso estratti ricorrendo al lavoro forzato, i cui proventi sono in larga parte destinati al finanziamento dei conflitti armati.

Le imprese di maggiori dimensioni hanno ormai imparato a proprie spese che nelle catene dei fornitori e sub-fornitori possono nascondersi bombe ad orologeria, capaci di causare danni economici e reputazionali rilevantissimi. Nonostante ciò, recenti studi indipendenti recenti hanno evidenziato che le violazioni commesse dai fornitori di livello inferiore sono spesso innescate dai comportamenti delle stesse imprese multinazionali, e tra queste proprio quelle che si ritengono più virtuose e attente ai profili sociali e ambientali. Tra i comportamenti pericolosi vanno menzionati, ad esempio, gli ordini di quantitativi superiori alla capacità produttiva dei fornitori, l’imposizione di tempi di consegna troppo stringenti o di eccessive riduzioni dei prezzi di acquisto.

Anche per questa ragione, gli standard di rendicontazione non finanziaria di maggiore diffusione internazionale (Global Reporting Initiative, Gri 204) prescrivono in primo luogo che le imprese debbano fornire una descrizione di tutte le iniziative volte a individuare e regolare le pratiche di procurement che possono determinare impatti negativi nella catena delle forniture.

È indubbio che tutte queste attività di controllo e gestione della filiera di approvvigionamento (costituita in via principale da fornitori e sub-fornitori, cioè da soggetti esterni al perimetro aziendale) hanno un costo significativo. Si pensi, ad esempio, alle verifiche affidate alle società indipendenti, all’etichettatura di origine dei prodotti, agli obblighi di reporting, all’ingresso e formazione di nuove figure professionali specializzate, agli investimenti informatici e tecnologici.

Si potrebbe dunque ritenere che le imprese più virtuose, paradossalmente, si trovino in una situazione di svantaggio competitivo rispetto ai concorrenti che prestano minore attenzione alla sostenibilità e non sostengono i costi ad essa associati. Ma non è esattamente così.

Già negli anni ’80, Michael Porter – famoso professore della Harvard Business School – aveva teorizzato che la cosiddetta “Catena del Valore”, fondata sulla gestione efficiente della filiera logistica e produttiva, fosse il modello di organizzazione più idoneo a sviluppare e mantenere il vantaggio competitivo. In termini necessariamente semplicistici, i prodotti  delle aziende con supply chain resilienti, flessibili e sostenibili sono quelli a maggior valore aggiunto e dunque “premium”, per i quali il consumatore è disponibile a pagare un prezzo maggiore rispetto ai prodotti della concorrenza.

In conclusione, le aziende più dinamiche, che si sono mosse in anticipo investendo nella direzione virtuosa della sostenibilità, possono beneficiare di significativi vantaggi e, soprattutto, possono ricorrere agli enormi flussi finanziari che il Green Deal europeo, il Next Generation EU e gli strumenti di green finance stanno convogliando verso le imprese, il cui accesso risulterà sempre più subordinato all’effettivo rispetto dei requisiti Esg (Environment Social Governance), anche nelle catene di approvvigionamento.

Supply chain sostenibili, perché conviene. Lo spiega l'avv. Giordano

Di Enrico Giordano

Le aziende più dinamiche, che si sono mosse in anticipo investendo nella direzione virtuosa della sostenibilità, possono beneficiare di significativi vantaggi e, soprattutto, possono ricorrere agli enormi flussi finanziari che il Green Deal europeo, il Next Generation EU e gli strumenti di green finance stanno convogliando verso le imprese, il cui accesso risulterà sempre più subordinato all’effettivo rispetto dei requisiti Esg (Environment Social Governance), anche nelle catene di approvvigionamento. L’analisi dell’avvocato Enrico Giordano, senior counsel di Chiomenti

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