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Formiche.net ha avuto accesso agli archivi del Foreign Policy Research Institute (Fpri) di Philadelphia, prestigiosa istituzione di ricerca di politica estera Usa, per “disseppellire” uno studio del 1978, firmato dal decano nordamericano degli studi sull’Europa Orientale, Aurel Braun, dal titolo Soviet Naval Policy in the Mediterranean: Yugoslavia and the Sonnenfeldt Doctrine” (in Orbis, a Journal of World Affairs, 4/1978)

Il legame tra Europa Orientale, politica navale e centralità del Mediterraneo è quello che ci ha colpito e spinto a rileggere in filigrana attuale questo lungo articolo, praticamente sconosciuto in Italia, a parte una citazione nell’ottimo (ma datato) libro dello storico triestino Giampaolo Valdevit “Gli Stati Uniti e il Mediterraneo, da Truman a Reagan” (1992).

Il vaglio dell’attualità pone l’Italia, principale potenza rivierasca della Nato, di fronte alla considerazione delle variabili utilizzate da Braun nel confronto bipolare Usa-Urss sul quadrante mediterraneo: forze navali, volontà politica, intelligence, geografia e dunque, essenzialmente, “questione delle basi”. Il contesto strategico è reso differente da due elementi: la trasformazione tecnologica militare e la sostituzione di una superpotenza continentale, l’Urss, con una superpotenza economico-commerciale, la Cina.

Infatti, da un’analisi delle tecnologie navali d’attacco di impiego mediterraneo, l’articolo di Braun traeva il ridimensionamento della minaccia sovietica, poiché, essendo i missili da crociera Ssn (superficie-superfici navali) la chiave di volta della superiorità di teatro, a Mosca mancava la capacità di colpire “oltre l’orizzonte”, ovvero i sistemi di guida per indirizzare con precisione sul bersaglio. Non è il caso di soffermarsi sugli aspetti quantitativi, che segnalavano una crescita delle forze navali disponibili sovietiche a partire dal 1960 (anno in cui si svolsero le prime esercitazioni navali sovietiche nell’Egeo a partire dalle basi albanesi), per il semplice fatto che già nel 1961 la Squadra del Mediterraneo venne sfrattata dall’Albania a causa dell’allineamento di Tirana con Pechino nella contesa fra “i due comunismi”.

Questo ci porta al salto qualitativo-tecnologico del confronto attuale tra Cina e Stati Uniti rispetto alla vecchia guerra fredda. Mosca aveva bisogno di porti, scali per rifornimento, riparazioni e piste per il supporto aereo. Alla fine degli anni ’60 strinse un accordo con l’Egitto che le diede per breve tempo un certo margine di pressione sugli interessi Usa (mal sfruttato durante la guerra dei Sei Giorni del 1967), ma già nel 1972 una nuova rottura politica provocò la perdita di quelle basi. Si poneva a quel punto il problema della Jugoslavia, la cui leadership aveva mantenuto il non-allineamento e l’indipendenza da Mosca, e che tuttavia si trovava geograficamente in una posizione ideale per fornire all’Urss basi e scali aeronavali in grado di minacciare le posizioni mediterranee americane. In quella stessa fase, uscì sui giornali, facendo clamore, la “dottrina Sonnenfeldt” enunciata dal consigliere del Dipartimento di Stato per gli affari sovietici ed est-orientali, Helmudt Sonnenfeldt, durante un vertice di ambasciatori Usa a dicembre 1975. Si trattava in realtà di poche frasi (oggi diremmo “Wikileaks”) che affermavano essere interesse americano che l’Urss sviluppasse un legame “più organico” con l’Europa Orientale, riconoscendo la “forte influenza geopolitica sovietica” nell’area. Incrociata con le successive dichiarazioni di Jimmy Carter, secondo cui gli Usa non sarebbero intervenuti militarmente in caso di attacco sovietico alla Jugoslavia, crearono le condizioni per un caso diplomatico, poi ricucito.

La preoccupazione di Aurel Braun rispetto alla “dottrina Sonnenfeldt” nell’articolo da noi consultato è precisamente questa: l’Urss avrebbe ben potuto sviluppare un rapporto “più organico” con Paesi dell’Est Europeo purché tra questi non figurasse, per l’appunto, la Jugoslavia. In altre parole, l’influenza geopolitica di Mosca doveva restare continentale e non assumere connotati marittimi-mediterranei, il che avrebbe messo a rischio il predominio navale Usa. Il decentramento e l’automazione della guerra oggi consentirebbe molta maggiore flessibilità, e minori “costi di intervento”, a una potenza che voglia sfidare il predominio della Sesta Flotta. Questo, purché essa abbia forte capacità satellitare: e dunque il campo si restringe di molto, praticamente alla Cina.

In particolare la gamba adriatica della One Belt One Road Initiative di Pechino rappresenta una novità assoluta rispetto al quadro della precedente “guerra fredda”, quando Mosca era rimasta esclusa da Trieste e da Fiume, ovvero da postazioni navali strategiche, ad un passo dal cuore tedesco-mitteleuropeo dell’Alleanza, la cui occupazione (anche solo commerciale) è in grado, se non altro come potenziale minaccia, di condizionarne percezioni e scelte geopolitiche. La Nuova Via della Seta è un game changer proprio perché rende obsoleta la “questione delle basi”, nelle strettoie mediterranee assai più che nelle distese dell’Oceano Indiano.

È di assoluto rilievo, infine, il fatto che nell’articolo all’Italia non venga riservato che qualche passaggio di sfuggita, pur essendo il bastione adriatico della Nato, la frontiera orientale del dispositivo centro-mediterraneo. E che, di contro, venga inclusa la Francia, al tempo ancora esterna all’Alleanza Atlantica, nel conteggio delle forze che assicuravano alla Nato il predominio nel teatro navale meridionale. La nostra impressione è che questo tipo di analisi politico-militare siano tipiche della storica sottovalutazione dell’Italia, e/o dell’incomprensione per la delicata tessitura regionale culminata negli accordi territoriali su Trieste e affiancata dai rapporti con Gheddafi, rapporti che non avrebbero potuto essere curati meglio stando in una sala operativa a migliaia di chilometri di distanza, a Washington come a Parigi. Ora che le onde lunghe della storia hanno proposto, dopo la disgregazione jugoslava e quella libica, il venir meno di quell’architettura, è chiara la rivincita di un progetto alternativo a guida francese di articolazione del Mediterraneo Centrale, progetto cui le nostrane mode “sovraniste” hanno lasciato ampio campo libero raccattando per la strada dosi tossiche di xenofobia.

È vero, come sottolinea Aurel Braun, che Mosca si rappresentava il fronte meridionale Nato come “ventre molle”, penetrabile con forme di guerra psicologica, ma è altrettanto vero che in questa rappresentazione vi era il rovescio della medaglia, ovvero che l’ascesa militare sovietica potesse essere utilizzata per operazioni di contro-informazione in direzione atlantista, per imporre muri, blindature e chiusure, come in effetti è accaduto con il craxismo e berlusconismo in politica estera, veri e propri “commissari liquidatori” (ancora in azione) del progetto di distensione centro-mediterranea di Aldo Moro.

 

 

Appunti di Guerra Fredda mediterranea (con la Cina al posto dell'Urss)

Il legame tra Europa Orientale, politica navale e centralità del Mediterraneo analizzati attraverso un lungo articolo, praticamente sconosciuto in Italia, datato 1978 a firma del decano nordamericano degli studi sull’Europa Orientale, Aurel Braun, che Formiche.net ha avuto la possibilità di studiare avendo accesso agli archivi del Foreign Policy Research Institute di Philadelphia, prestigiosa istituzione di ricerca di politica estera Usa. Ecco tutta la attualità del saggio

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