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Messaggio statunitense agli alleati europei per bocca del capo del Petangono, Lloyd Austin: bisogna che vi occupiate delle regioni di mondo più prossime alla vostra area geografica, per esempio l’Africa e il Medio Oriente, ossia quello che l’Italia definisce il Mediterraneo Allargato, oppure l’Artico. L’appello di Austin ha una circostanza temporale specifica: ha parlato da Singapore, proprio mentre l’ammiraglia della flotta inglese, la “HMS Queen Elizabeth“, attraversava lo Stretto di Malacca.

Austin ha elogiato l’impegno britannico; ha sottolineato come il dispiegamento della Queen Elizabeth (che nel suo primo viaggio operativo si è subito diretta a Oriente) sia importante per testare le capacità di interoperabilità (sul ponte, gli F-35 sono dei Marines americani); ha aggiunto inoltre che è molto ben gradito “l’aiuto” di tutti nell’Indo Pacifico, “però – ha detto – stiamo cercando di assicurarci di aiutarci a vicenda anche in altre parti del mondo”.

Austin ha spiegato che le risorse militari sono “scarse”, il che significa che gli Stati Uniti e i loro alleati devono trovare il modo migliore per condividere gli oneri: “Se, ad esempio, ci concentriamo un po’ di più qui [in Asia], ci sono aree in cui il Regno Unito può essere più utile in altre parti del mondo”, ha detto. Scenario da aggiungere al contesto in cui si inseriscono queste dichiarazioni: il capo del Pentagono parlava a un evento dell’International Institute for Strategic Studies, tra i più importanti think tank inglesi.

“Le sue osservazioni saranno un duro colpo per il governo britannico”, scrive il Financial Times, che ha dovuto poi correggere il pezzo, colpevole di aver eccitato troppo i toni dello speech di Austin. Londra ha replicato: “Il Regno Unito e gli Stati Uniti sono alleati indispensabili e lavoriamo fianco a fianco in tutto il mondo per difendere i nostri valori e combattere le minacce condivise, incluso il dispiegamento del [gruppo di attacco delle compagnie aeree] che ha effettuato vaste operazioni in Europa così come nell’Indo-Pacifico”.

Il senso della parole di Austin è riassumibile così: affinché gli Stati Uniti possano portare a compimento un reale pivot-to-Asia, ossia un riorientamento strategico verso la regione da cui iniziare il contenimento della Cina, gli alleati devono mostrarsi pronti a prendere in mano le redini in altre aree del mondo da cui Washington intende disimpegnarsi. Dunque cooperazione nell’Indo Pacifico sì, ma tatticamente funzionale e non come shift strategico per gli europei.

Washington vuole per esempio assicurarsi che qualcuno resti a presidiare (con una presenza di valore strategico) la regione del Medio Oriente, o che gli alleati transatlantici si concentrino nelle complessità del Mediterraneo, piuttosto che seguano gli Usa verso Est. Quadrante dove comunque sono gradite sortite per dimostrare capacità di coordinamento e cooperazione, parte della deterrenza militare da sviluppare davanti alla Cina come un fronte compatto delle Democrazie occidentali.

La questione del coordinamento sulle strategie esposta nel modo in cui ha fatto Austin è singolare per chiarezza. Un messaggio da cui dovrebbero ripartire le successive discussioni e orientamenti, che non può non interessare anche l’Italia, punto nodale delle alleanze americane per la geostrategica posizione in mezzo al Mediterraneo; un’area cruciale su cui Cina e Russia stanno allungando la loro penetrazione anche sfruttando i vari contesti di instabilità che si stanno creando.

Su Formiche.net, il presidente della commissione Affari esteri della Camera, Piero Fassino, ne ha in questi giorni tracciato il perimetro cogliendo l’occasione di un’intervista focalizzata sulla crisi tunisina. Nordafrica (con Libia e Tunisia in pieno terremoto istituzionale, Algeria e Marocco sempre sull’orlo della destabilizzazione e l’Egitto ancora altamente sensibile), Sahel (area di instabilità tra Mali e Ciad, e di traffici di ogni genere), Levante arabo (il Libano ancora senza un governo e con l’economia a picco, la Siria dove la guerra civile non è mai finita) e infine il Medio Oriente (le condizioni complesse in Iraq, l’Iran a completa guida conservatrice, la non completa riconciliazione nel Golfo) e infine il Corno d’Africa (la crisi idrica della Gerd, la guerra del Tigray, il conflitto yemenita).

Situazioni su cui gli Stati Uniti vogliono certezze. Il disimpegno da certi teatri è fattore di scelta strategica, non collegato alle dinamiche tattiche sul campo (basta vedere la decisione sul ritiro dall’Afghanistan mentre i Talebani diventano forti come non mai, o la rimodulazione dell’impegno in Iraq). Contemporaneamente però non è un abbandono. Washington vorrebbe un passaggio di consegne. Se gli Usa orientano i proprio sforzi verso altre regioni (l’Indo Pacifico, appunto) allora gli alleati devono impegnarsi di più in quelle altre aree di mondo. È questo che spiega Austin.

È chiaramente anche un problema di risorse: una fonte dal mondo militare spiega a Formiche.net che non c’è disponibilità per “andare ovunque”, tema affrontato anche dal capo del Pentagono. Per questo “occorre orientarsi su quello a cui le varie capacità si adattano meglio, anche in ottica Nato”. Per esempio, mentre la Queen Elizabeth era in viaggio verso Oriente ha perso per guasti tecnici il “HMS Diamond“, un cacciatorpediniere Type-45 che dovrebbe provvedere alla difesa aerea della portaerei. L’ammiraglia inglese è attualmente scortata da una nave americana e una olandese perché queste unità hanno sempre bisogno di mezzi di sostegno.

Indo-Pacifico? L'Europa si concentri sul Mediterraneo Allargato. Il monito di Lloyd Austin

Il capo del Pentagono ha spiegato cosa gli Stati Uniti vorrebbero dagli alleati europei: disponibilità per sortite sull’Indo Pacifico, ma orientamento strategico nelle aree geografiche di competenza, come Africa, Medio Oriente e Golfo, anche per riempire gli spazi lasciati “scoperti” dal disimpegno americano

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