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Analizzare e raccontare l’anno che è appena passato e individuare le tendenze che si stanno aprendo di fronte a noi è un compito necessario ma arduo, in cui pochi sono gli ancoraggi cui aggrapparsi. A differenza della crisi che abbiamo vissuto nel corso degli ultimi 20 anni, quella indotta dalla pandemia, come ci ricorda Edgar Morin (Cambiamo strada, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020), ha fatto entrare nell’arena sociale e individuale temi come le dimensioni della nostra esistenza, la condizione umana, l’incertezza delle nostre vite, le peculiarità della nostra civiltà e del nostro modello economico, l’organizzazione delle nostre città, le relazioni tra le generazioni, nonché le forme in cui ci muoviamo e ci pensiamo. Del Covid non abbiamo ancora la piena contezza della portata.

Ne abbiamo conosciuto la virulenza. Ne stiamo verificando la resilienza e la mutabilità. Abbiamo appurato le difficoltà delle persone, specie quelle che vivono nei Paesi occidentali, a fare i conti con i mutamenti comportamentali che la pandemia ha imposto. Molti dei danni collaterali del Covid li cominciamo a intravvedere, ma non riusciamo ancora a pesarne fino in fondo la portata. Non sappiamo quando, se e come finirà la pandemia.

Non sappiamo ancora il reale impatto economico, tantomeno quello di lungo periodo: quanti saranno i nuovi disoccupati, quanti professionisti o commercianti, operatori turistici o piccoli imprenditori perderanno la propria impresa o attività. Non riusciamo a definire in tutte le sue sfaccettature, la dimensione dei danni arrecati al sapere, alla formazione delle future classi dirigenti, né riusciamo a quantificare gli effetti futuri sui comportamenti sociali, culturali e sui consumi.

Alcuni danni collaterali, così come alcuni mutamenti comportamentali e sociali iniziano a mostrarsi. Sappiamo, come direbbe Morin, che il confinamento esistenziale è stato una lente d’ingrandimento delle diseguaglianze
sociali sopite, come di quelle generate dalle differenze socio-spaziali-abitative a disposizione delle persone. Sappiamo che la pandemia ha figliato una ulteriore divisione del lavoro, accrescendo non solo la disparità verticale tra chi ha un posto garantito e quanti hanno una occupazione precaria, ma ha anche alimentato una nuova separazione orizzontale tra quanti possono lavorare in smart working e quanti questa possibilità, per il tipo di
occupazione, per la mansione che svolgono o per la mancanza di spazi e di strumentazione adeguata, non possono farlo. Abbiamo scoperto che il digital divide non è solo tra chi ha o non ha competenze tecnologiche, ma
anche tra chi ha o non ha una dotazione di rete adeguata, o tra chi ha o non ha un device consono per seguire le lezioni in didattica a distanza.

È sempre più chiaro e più reale, di fronte all’accrescersi dei patrimoni delle persone più ricche del mondo (i primi 20 imprenditori del mondo hanno guadagnato nel 2020 circa 1,77 trilioni di dollari, ovvero 1.440 miliardi di
euro in più rispetto al 2019) e davanti alla lievitazione del debito pubblico nazionale (nel 2020 dovrebbe sfondare il tetto del 158% del Pil, a fronte alla già esorbitante quota del 134,6% del 2019) il monito di chi, già 150
anni fa, affermava che “l’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che entra realmente in possesso della collettività dei paesi moderni è il debito pubblico”.

Nella nostra società sono in corso mutamenti e metamorfosi, transizioni e retromarce, spinte aperturiste e ripiegamenti serranti. L’esperienza pandemica sta contribuendo a ridisegnare molti aspetti della nostra economia, dell’esistenza, dell’individualità e della personalità dei singoli, del modo di vivere e stare con gli altri, di amare e divertirsi. Il susseguirsi delle ondate, le andate e ritorni tra aperture e chiusure, hanno attivato una
lunga fase di passaggio che sta generando un peculiare gioco del doppio: le persone, colpite, sballottate, spaventate, oscillano vorticosamente tra la ricerca di momenti di con-fusione, di recupero del sé comunitario, di abbandono al mistero del mondo e pulsioni di rabbia, paura, tutela e sicurezza; di ritorno a forme di accentramento su se stessi.

Un mood multidimensionale e ossimorico attraversa la realtà italica, in cui la logica compositiva (questo e quello possono stare insieme) è in perenne conflitto con la logica oppositiva dell’aut-aut. La direzione è ancora
incerta e il tratto di fondo del momento sembra essere marcato dall’immagine del bivio, dei tanti e diversi crocevia, suggellati dal perdurante contrasto tra rabbia e ricerca di armonia; tra giustizia sociale e affermazione egoistica di sé, tra paura e voglia di spensieratezza, tra la speranza di far tornare tutto come prima e la certezza che, comunque vada, indietro non si torna e che il recupero di una normalità sarà in ogni caso caratterizzato dall’essere una nuova normalità.

Italia 2021. Risso racconta la danza immobile di un Paese al bivio

Nella nostra società sono in corso mutamenti e metamorfosi, transizioni e retromarce, spinte aperturiste e ripiegamenti serranti. L’esperienza pandemica sta contribuendo a ridisegnare molti aspetti della nostra esistenza. Un mood multidimensionale e ossimorico attraversa la realtà italica, in cui la logica compositiva (questo e quello possono stare insieme) è in perenne conflitto con la logica oppositiva dell’aut-aut. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Ipsos “Italia 2021. La danza immobile di un Paese al bivio” a firma di Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos

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