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Con la riapertura dei cinema, non si può certo affermare che la proposta dei titoli sia stata timida nei contenuti: pur nelle diverse forme di distribuzione e fruizione di cui molto si è parlato, una bizzarra congiuntura di fattori, difficile da spiegare, ha reso manifesto un messaggio politico che è sottile, che si insinua nelle coscienze, eppure al contempo divertente e di grande impatto. Come già affermato in qualche precedente editoriale, i film mantengono ancora un primato comunicativo assoluto, pari forse soltanto alla saggistica sociologica e alla stampa, anche nella sua declinazione social.

Recente tendenza (molto apprezzata dal grande pubblico), peraltro, è quella di spiegare i meccanismi di funzionamento della fucina culturale, giornalistica, editoriale: in breve, tutti aspirano a conoscere il “dietro le quinte”, quali siano le frenesie relazionali e lavorative, finanche le nevrosi da staff, tutto quanto parte dell’anima della comunicazione. Si staglia in questo panorama una manciata di pellicole significative, entrate già di diritto nella storia della cinematografia, che qui si menzionano per interesse dei lettori.

Nel primo giorno di botteghino (fine settimana) il celebre regista David Fincher distribuisce la sua ultima opera (in bianco e nero), Mank (2020), con protagonista l’attore inglese, premio Oscar, Gary Oldman. Quest’ultimo interpreta un poco noto sceneggiatore hollywoodiano, Herman Jacob Mankiewicz, particolarmente talentuoso e sofferente di una grave dipendenza tossica da alcol; egli sarebbe nientemeno che la mente dietro la sceneggiatura di Quarto potere, tramite il quale Orson Welles descrive l’archetipo dell’uomo di potere, capace e prismatico, privo di scrupoli, chiuso all’intimismo e alla permeabilità (debolezza?) dei sentimenti.

Ancora una volta, si pone un grave dubbio identitario che sconvolge il mondo della cultura: l’opera da tutti amata non è stata scritta o composta dall’autore che vi ha posto la firma (tematica molto risalente nel tempo, da Omero a William Shakespeare). Il problema dell’identità è più attuale che mai, proprio perché la sofferenza che sembra marchiare gli intellettuali contemporanei è proprio un sospetto di vacuità, oltre alla più banale ed eterna domanda data dal “Chi sono?”.

Con pari fermezza ma tramite dolce e carismatica ironia, Woody Allen dialoga con lo spettatore tramite il suo alter ego Mortimer Rifkin (interpretato da Wallace Shawn), professore di storia del cinema trascinato dall’avvenente moglie a una rassegna stampa dedicata a recenti e pretenziosi titoli, nella località spagnola di San Sebastian (Rifkin’s Festival, 2020). Lì l’anziano e buffo signore ha modo di girovagare tra le romantiche stradine e porsi alcune domande esistenziali, tra nostalgia e sentori agrodolci. Si verifica anche un incontro di anime impossibile da realizzare in via fattuale, che si segnala per il suo valore etico, e una serie di sogni/citazioni di altre opere, importante lascito testamentario da parte dell’autore Allen, che ha quindi modo di effettuare un’importante affermazione di poetica ispiratrice.

Chi decide invece di entrare nel complesso meandro della memoria e della mente umana è il regista di The Father – Nulla è come sembra (2020), che tramite il registro della pièce teatrale decide di raccontare la sovrapposizione dei punti di vista, operata da parte di una persona che soffre di una grave patologia. Tale narrazione è valorizzata ovviamente dalle interpretazioni, in specie quella del protagonista Anthony Hopkins, che qui mostra solo una minima parte del suo talento, essendosi già spinto oltre ogni limite in una carriera dal pregio intellettivo altissimo.

E la letteratura in tutto ciò? In una proliferazione editoriale che è anche sintomo di salute, si deve purtroppo registrare una tendenziale piattezza emozionale, nonostante la gamma sentimentale mostrata anche con troppa pervicacia in ogni singolo testo pubblicato. Questo periodo estivo si caratterizza per due letture che ad avviso di chi scrive si pongono come antitetiche: Gli anni del coltello, di Valerio Evangelisti (Mondadori, 2021) e Due vite, di Emanuele Trevi, (Neri Pozza, 2020), vincitore del Premio Strega 2021.

Il primo è un romanzo storico dedicato al Risorgimento italiano, come ovvio profondamente intriso di Storia, attraverso il quale l’autore si incarica di effettuare una lettura feroce e non gloriosa di quel periodo, di scoprire i nomi dei protagonisti del passato recente, gli esploratori tenaci, i guerrieri, gli attori sociali attratti come nobili sciami sui fiori da ere storiche e momenti di densità costituzionale.

Il secondo è invece un romanzo (o un saggio?) che si pone come ricerca biografica relativa a due scrittori scomparsi prematuramente, Rocco Carbone e Pia Pera. Tale indagine è pretesto per effettuare un’esposizione narrativa caratterizzata da letterarietà, quindi quanto di più lontano dalla cosiddetta narrativa di genere, o paraletteratura. Il mondo dei premi, ben descritto nella filmografia già citata, è complesso e sembra non aver ancora raggiunto una sintesi tra questi due mondi, di cui si deve nondimeno constatare la venuta ad esistenza.

Da Woody Allen ad Anthony Hopkins fino al Premio Strega, per una rinascita culturale

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