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Sono fuggiti in Tajikistan per rifugiarsi dalla furia dei Talebani: il destino di un altro reparto di diverse centinaia di soldati afghani, il quinto in due settimane, fotografa la situazione nel Paese. Mentre le truppe occidentali si ritirano in modo ordinato e compatto (dopo una guerra che dura da venti anni), il Paese scivola nuovamente nelle mani degli insorti jihadisti, con il gruppo che fu fondato dal Mullah Omar che ormai controlla province in tutto il territorio e con le aree a completo controllo governativo che sono costantemente vittime di attacchi.

I talebani ora controllano circa un terzo dei quasi 400 distretti dell’Afghanistan e ne minacciano molti altri. Sebbene non abbiano ancora conquistato alcun capoluogo di provincia, ora ne circondano diversi, dalla città di Ghazni a est a Maimana nella provincia settentrionale di Faryab.

Le Guardie di frontiera tagike che si sono viste arrivare il corpaccione scomposto e impaurito dei militari afghani hanno diffuso una dichiarazione impietosa: “Volevano salvare la vita”. Un’altra immagine dura, in un Paese in cui il comparto difesa e sicurezza da due decenni è sotto il training costante degli occidentali, ma salvo pochi reparti scelti è allo sbando completo. Istituzione, le Forze armate, rappresentativa di un paese in completa crisi politica, sociale, economica, culturale e appunto istituzionale.

La stragrande maggioranza delle forze straniere rimaste in Afghanistan è stata ritirata prima della scadenza di settembre e si teme che l’esercito afghano collassi. In base a un accordo con i talebani, gli Stati Uniti e i gli alleati Nato (italiani compresi) hanno concordato di ritirare tutte le truppe in cambio dell’impegno degli insorti a non consentire ad al-Qaeda o a qualsiasi altro gruppo estremista di operare nelle aree da loro controllate.

L’intesa c’è, ma prima di ulteriori definizioni i ribelli afghani stanno portandosi avanti per arrivare a ulteriori negoziati con in mano il massimo del territorio possibile. D’altronde i Talebani non hanno mai accettato di smettere la lotta contro il governo (e le forze armate che lo rappresentano) di cui non ne riconoscono legittimità.

E mentre il presidente Ashraf Ghani ha garantito (anche recentemente alla Casa Bianca) che i suoi militari sono in grado di tenere il controllo del paese, notizie simili a quelle dalle province Badakhshan e Takhar al confine col Tajikistan arrivano dalle arre che lambiscono Pakistan e Uzbekistan. Qualcosa che dà la dimensione regionale del disastro potenziale, con attori globali come la Cina che guardano con preoccupazione la situazione perché inserita sulle rotte della Via della Seta (dove non solo serve stabilità, ma armonia) e in contatto osmotico con la provincia problematica dello Xinjiang.

Venerdì gli Stati Uniti hanno consegnato al governo di Kabul la base aerea di Bagram, il cuore della missione americana in Afghanistan, nata come risposta al 9/11, quando Washington chiese l’attivazione dell’Articolo 5 della Nato per rispondere all’aggressione qaedista sul proprio territorio. Il ritiro da Bagram è simbolico, significa che gli Usa non possono più svolgere operazioni significative nel Paese che, tramite il regime talebano, ha dato riparo ai comandanti di al Qaeda che ordinarono la strage dell’Undici Settembre.

Restano poche centinaia di soldati rimasti, ufficialmente in servizio di guardia per l’ambasciata, e in una conferenza stampa (sempre venerdì scorso) il presidente Joe Biden ha spazzato via le domande sulla fine dello schieramento negli Stati Uniti, dicendo che era un fine settimana di vacanza e: “Voglio parlare di cose felici, amico”.

In molte aree, le forze di sicurezza afghane si sono arrese senza combattere, a volte grazie ad accordi mediati da anziani locali. Ci sono video che mostrano i talebani che abbracciano i soldati che si arrendono e forniscono loro denaro per tornare a casa. sono immagini che servono anche per propaganda, alle forze governative arriva un messaggio: avete la certezza che se non combattete e abbandonate le posizioni non perderete la vita. Difficile rinunciare a un’offerta del genere.

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