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Hong Kong, storicamente un crocevia (commerciale e culturale) tra Occidente e Oriente, è sempre più in mano alle autorità cinesi. L’imposizione della legge nazionale sulla sicurezza, oltre ad aver imbrigliato le pulsioni democratiche dei cittadini, sta spaventando anche le aziende Big Tech che per anni vi hanno operato, approfittando di quella che era un’oasi di libertà digitale alle porte della Cina. E mentre le grandi compagnie tecnologiche contestano la scivolata autoritaria (seppure a modo loro), continua lo scontro tra forze dell’ordine e alcuni rimasugli del movimento pro-democrazia soffocato con la violenza da Pechino.

Guerriglia digitale

Tutto ha inizio nel 2019 quando le forze dell’ordine di Hong Kong tolsero gli identificativi dalle divise. Questo portò all’esplosione di siti dedicati al doxxing, ossia la diffusione mirata di informazioni personali, grazie ai quali i protestanti riuscivano a far girare le foto scattate durante le manifestazioni e identificare i poliziotti e le loro famiglie. I siti pro-polizia, intanto, rendevano pan per focaccia.

Per calmare le acque l’amministrazione di Carrie Lam reagì impugnando la legge di sicurezza nazionale e proponendo degli emendamenti secondo i quali chiunque diffonda informazioni personali con lo scopo di molestare, minacciare o intimidire rischia cinque anni di prigione e multe di oltre $100.000. E proprio quelle misure anti-doxxing, ormai prossime all’attuazione, hanno portato allo scoperto la contraddizione di voler legiferare alla maniera del governo centrale cinese in una realtà dove la presenza occidentale (e la libertà di espressione) è fortemente radicata.

Già a gennaio 2021 Facebook, Google e Twitter dichiararono di aver cessato di ottemperare alle richieste di dati da parte delle autorità di Hong Kong. E pochi giorni fa la Asia Internet Coalition, un ente industriale con alle spalle le Big Tech che operano a Hong Kong, ha fatto pervenire alla commissaria per la privacy locale Ada Chung Lai-ling una lettera esplosiva: se questi emendamenti diventano legge, le compagnie in questione si vedrebbero costrette a sospendere le operazioni e gli investimenti nella città.

I nostri impiegati, spiegano i portavoce delle compagnie, sarebbero passibili di reato dovendo rispondere personalmente dei contenuti doxxing veicolati sulle piattaforme digitali. Inoltre gli emendamenti incoraggerebbero le piattaforme ad accogliere praticamente tutte le richieste di rimozione di contenuti, cosa che danneggerebbe la libertà d’espressione. Poco sotto c’è anche la minaccia al giro d’affari locale che i servizi occidentali supportano. E sotto traccia si intravvede la presa d’atto da parte delle aziende occidentali: se la Cina continua a stringere le maglie attorno a Hong Kong diventerà impossibile lavorarci senza accettare pesanti sconti alle libertà fondamentali.

Dal cellulare alle strade

Intanto, a Hong Kong continua la repressione con i metodi più “classici”. La polizia ha arrestato nove persone con l’accusa di terrorismo, sostenendo che cercano di fabbricare bombe per farle esplodere in diversi punti della città. Gli arrestati sono cinque uomini e quattro donne, tra i 15 e i 39 anni. Di questi ultimi arrestati, sei sono studenti.

Le autorità hanno informato che ragazzi fabbricavano le bombe artigianalmente nel laboratorio di un ostello, usando perossido di acetone (Tatp), secondo quanto si legge sull’agenzia Ap. Insieme alle sostanze chimiche c’erano anche 80.000 dollari di Hong Kong in contati. L’esplosivo sarebbe usato per colpire le forze dell’ordine, i tunnel sotto il porto e il tragitto di alcuni treni. Ma sarebbero stati collocati anche in diversi cestini della città per “massimizzare il danno alla società”, secondo la polizia.

Nel 2019, le forze dell’ordine arrestarono diverse persone che volevano detonare bombe fabbricate con questa sostanza. Due bombe sono state disattivate in una scuola cattolica e un’altra in un’auto della polizia durante le proteste pro-democrazia. Il Tatp è molto usato in attacchi terroristici a livello mondiale, perché facilmente reperibile.

In nome della “sicurezza”

Questi ultimi arresti si aggiungono all’ondata di arresti iniziati con l’approvazione della controversa legge sulla sicurezza nazionale promossa dalle autorità di Pechino. Per Amnesty International, questa nuova normativa ha colpito le libertà nella città, creando un clima sempre meno favorevole per la protezione dei diritti umani.

La scorsa settimana, in occasione del primo anniversario dell’entrata in vigore della legge imposta da Pechino, l’organizzazione internazionale ha pubblicato un report intitolato “Hong Kong: In the Name of National Security” su come la legge ha “dato il via libera alle autorità per criminalizzare illegittimamente a dissidenza, sopprimendo i diritti delle persone”.

Yamini Mishra, direttore regionale di Amnesty International per Asia e Oceania, spiega che “in un anno, la legge per la sicurezza nazionale ha portato Hong Kong in una strada veloce per diventare uno Stato di polizia e ha creato un’emergenza di diritti umani per chi abita lì”.

“Dalla polizia alla cultura – ha aggiunto -, passando per l’istruzione e i media, la legge ha influito a tutti i settori della società, fomentando un clima di paura che costringe i residenti a pensare due volta qualsiasi cosa dicono, twittano o come vivono”. La legge, “generale e repressiva, minaccia con trasformare la città in un terreno incolto di diritti umani che ricordano sempre di più la Cina continentale”.

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