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Di straordinario le cronache non riportano in questi giorni soltanto la primizia di un inquilino a Palazzo Chigi ambìto dai capi di stato europei per visitarlo per primi (Emmanuel Macron in pole position), oppure le forze armate finalmente in campo per la campagna di vaccinazione anti Covid. C’è anche una mezza rivoluzione copernicana tra i partiti italiani che, progressivamente, stanno metabolizzando come, dopo il governo Draghi 1, nulla sarà come prima anche per loro.

Solo sei mesi fa quanti avrebbero scommesso, nell’ordine, sulle dimissioni di Nicola Zingaretti dopo una rivolta interna così determinata nel Pd? Sul rimescolamento delle carte che potrebbe portare i renziani di nuovo ai vertici del Nazareno? O nella trasformazione della Lega in asset centrale e più centrista nello scacchiere italiano e europeo? O nella progressiva decomposizione del M5s, non più per le ambizioni dei singoli capicorrente, ma per una naturale parabola che ha depotenziato cariche e sèguiti?

Un risiko, articolato, complesso, certamente sussurrato nei giorni che hanno preceduto la fine dell’anno e del governo Conte 2. Ma che ha subìto ora una accelerazione improvvisa, che porta in dote conseguenze e riequilibri che avranno un peso specifico, non secondario, di qui alle prossime elezioni, amministrative e politiche. Non fosse altro perché, avendo i partiti molto più tempo da dedicare alla strutturazione interna, visto che sui dossier principali quali Recovery e vaccini Draghi andrà in autonomia con il ristretto gruppo di super tecnici, i leaders avranno la possibilità di sciogliere nodi e puntare ai nuovi obiettivi. Pd e Lega sono al momento attraversati dai movimenti tellurici maggiormente significativi.

Della segreteria targata Zingaretti si era ragionato in termini di “stabilità, coerenza e ritorno alla ditta” sin da subito. Erano i giorni di esattamente due anni fa, quando un’affluenza superiore alle aspettative soprattutto nei grandi centri urbani consentì al governatore del Lazio di vincere su Martina e Giachetti. Walter Veltroni definì quell’affluenza come “primarie segnale di luce nel buio”. Il buio però, volendo parafrasare quella riflessione, c’è stato non solo nella gestione della crisi di governo da parte di Zingaretti, ma soprattutto prima: ovvero nella debole postura del Pd sui temi strategici, come appunto il Recovery e la campagna di vaccinazione, senza dimenticare la prescrizione.

Una debolezza che oggi gli oppositori del segretario stanno riportando decisamente sul tavolo, come prova provata di un risultato negativo. Non solo Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna, ma anche altri amministratori locali potrebbero raccogliere il testimone da Zingaretti per immaginare una nuova squadra del Pd: Antonio De Caro, presidente dei sindaci e sindaco di Bari, o Giorgio Gori primo cittadino di Bergamo. I nodi non sono personali ma verteranno sulla postura del partito, ovvero: decidere definitivamente sul modus del rapporto con il M5s, anche alla luce della sua evoluzione interna, atteso che andrà verificato l’effetto-Conte sui grillini; riscrivere idee e mozioni su temi in cui fin qui è stato lasciato ago e filo a Grillo, come la giustizia, le relazioni internazionali, l’immigrazione, l’assistenzialismo da tramutare in azioni da “debito buono”.

Nodi ci sono e ci saranno anche nella Lega, dove Matteo Salvini non ha nel breve-medio periodo un problema di leadership ma di strategia e alleanze. Non si vede all’orizzonte, almeno per ora, un avvicendamento ai vertici. Esiste però: il tema del posizionamento europeo post uscita di Orban dal Ppe dove qualcuno vorrebbe far confluire la Lega; il tema dato dai dubbi su Afd e sul gruppo lepenista in cui molti faticano a convivere; e quello relativo alla volontà di procedere tatarellianamente alla costruzione di una destra di governo che governi stabilmente.

Le alleanze nella coalizione andanno ricalibrate, dal momento che nei territori governano assieme con Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (in ascesa) e Forza Italia (in discesa) di uno stanco ma sempre determinato Silvio Berlusconi: ma lo scorso anno alcune candidature per tutti non si sono rivelate vincenti (Emilia Romagna, Toscana, Puglia) contribuendo ad aprire un dibattito interno sul metro di scelta dei nomi.

Infine andrà fatto un bilancio, evidentemente non ora ma più in là, dei semi programmatici e strategici piantati da Giorgetti. Se porteranno alcuni frutti come il “ristoro” (organico e non solo di pochi mesi di sofferenza) ai ceti produttivi che rappresentano il grosso dell’elettorato leghista, allora la strada imboccata sarà verosimilmente senza ritorno. Contrariamente bisognerà guardare lo specchietto retrovisore, dove un possibile sorpasso di Fratelli d’Italia non sarebbe un’ipotesi improbabile.

twitter@FDepalo

Le dimissioni di Zingaretti e i progetti di Salvini

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