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La “cultura della sicurezza” rappresenta “una leva di primaria importanza per alimentare un nuovo modo di concepire il rapporto” tra istituzioni e cittadini. Lo scriveva, sulla rivista Gnosis, il prefetto Gianni De Gennaro nel 2011, quando era direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

A distanza di 13 anni da quell’intervento e di 17 dalla legge 124 del 2007 che ha riformato l’intelligence italiana, De Gennaro ha scritto la prefazione al volume “Sicurezza nazionale. Poteri, conflitti, informazioni”, curato da Aronne Strozzi e pubblicato dalla Luiss University Press. Nel testo (che si può leggere qui) De Gennaro non utilizza mai l’espressione “cultura della sicurezza”, un compito che la legge attribuisce al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Non serve metterla nero su bianco. Questa trasuda dalla sua prefazione così come dall’intero libro, che può contare sui contributi di funzionari che hanno lavorato al fianco di De Gennaro per anni tra Interno e Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (come Enrico Savio, Dario Matassa e Adriano Soi), oltre che di chi ha operato nell’intelligence (come Umberto Saccone, ex Sismi), chi nelle istituzioni (come Antonio Malaschini) e chi oggi lavora alla Difesa (come Alessio Anelli).

È un concetto insito in quella che De Gennaro definisce “sicurezza come prassi”, ovvero “un processo basato sulla conoscenza della realtà nei suoi fattori di pericolo e di prefigurazione delle possibili, relative evoluzioni; un processo che mira a ridurre al minimo la minaccia, in base sia alla memoria storica degli eventi passati sia della prefigurazione dei futuri”.

Ciò è ancor più importante oggi, in un contesto sempre più segnato da sfide asimmetriche come le minacce ibride. Ovvero da quelle attività che possiamo sintetizzare come puntini da collegare per ottenere la figura completa alla luce delle loro caratteristiche: sono, cioè, condotte su diversi domini (anche cyber), da attori non sempre “classici” (come aziende, media e diaspore all’estero utilizzati come proxy), sono anche facilmente negabili, sempre un gradino sotto la soglia del conflitto armato, e soprattutto coordinate.

Si tratta di minacce che impongono alle società democratiche una sforzo collettivo, una sicurezza collettiva. La diffusione della cultura della sicurezza è alla base di ciò in tutte le democrazie, che necessitano del confronto tra pubblico e privato per tutelare e promuovere l’interesse nazionale (si pensi all’intelligence economica). Lo è ancor di più in Italia, dove, per fare un esempio, il vocabolario Treccani, per illustrare la voce “deviato”, sceglie i “servizi segreti deviati” – una definizione che getta ombre sull’attività dell’intelligence italiana offrendo allo stesso tempo coperture alle responsabilità politiche.

Anche per questo, per rafforzare o generare consapevolezza di ciò che significano parole come poteri, conflitti e informazioni, l’auspicio è che il libro curato da Strozzi venga letto anche dai non addetti ai lavori.

Cultura della sicurezza, ponte tra istituzioni e cittadini. Il libro di Strozzi

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