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Le numerose dichiarazioni di riconoscimento dello Stato palestinese da parte di diversi governi nelle ultime settimane sembrano prefigurare un’imminente nascita dello Stato di Palestina. Tuttavia, le venti linee d’azione del Piano americano per Gaza sono chiaramente improntate a un percorso preciso, costitutivo e non essenzialmente declaratorio. Siamo entrati in una fase di avanzata maturazione del quadro giuridico internazionale definito con gli Accordi di Oslo che, se coronata dal successo, avrebbe caratteri realmente costitutivi anziché puramente declaratori. 

Andiamo con ordine. La proposta “due popoli, due Stati” raggiunse il punto più vicino alla realizzazione con la firma degli Accordi di Oslo siglati nel settembre 1993 alla Casa Bianca tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sotto gli auspici di Bill Clinton. Per quanto gli accordi ponessero fine alla prima Intifada, l’inaffidabilità di Arafat contribuì in maniera importante al deragliamento, nel 2000, del processo di Oslo con il rifiuto da parte del leader palestinese del piano di ripartizione dei territori. Una decisione segnata dalla ripresa della lotta armata, con la seconda Intifada, attraverso le formazioni terroristiche affiliate all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come Fatah Tanzim, le Brigate Fatah Al Aqsa, il Fronte per la Liberazione della Palestina, Force 17.  

I primi anni 2000 segnarono però anche un rinnovato rilancio degli sforzi diplomatici. Grazie all’impulso del principe ereditario saudita Abdullah, il vertice della Lega Araba di Beirut del 2002 adottò un piano di pace che prevedeva la fine del conflitto israelo-palestinese con la normalizzazione delle relazioni tra Israele e tutti i Paesi arabi mediante il ritiro israeliano dal Golan, dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, e l’applicazione della Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in tema di rifugiati palestinesi. Il piano godeva, tra l’altro, del sostegno di voci influenti anche dal mondo dell’informazione come Thomas Friedman 

Quasi contemporaneamente, in risposta all’intensificarsi della seconda Intifada, Stati Uniti, Ue, Federazione Russa e Onu diedero vita al Quartetto per il Medio Oriente, guidato dal 2007 dall’ex Primo Ministro britannico Tony Blair. Merita ricordare la profondità e la chiarezza degli impegni che il Quartetto indicava alle due parti e sosteneva per procedere secondo precise scadenze cronologiche. 

Il Quartetto proponeva una “Road Map” strutturata secondo due pilastri fondamentali: favorire lo sviluppo economico, istituzionale e l’emancipazione dei palestinesi; sostenere una soluzione basata sul riconoscimento di due popoli per due Stati che si riconoscono reciprocamente per vivere in sicurezza e prosperità. Un percorso nel quale l’Ue è stata tra i protagonisti promuovendo una politica estera e di sicurezza europea dalla quale non si può prescindere. 

La visione del Governo Meloni appare coerente con le linee tracciate sin dagli Accordi di Oslo del 1993 e riaffermate con la “Road Map” del 2002 del Quartetto. Nelle circostanze tragiche che il Medio Oriente sta vivendo oggi – con una diffusione del terrorismo direttamente sostenuto da una crescita imponente dell’Iran e dei suoi proxies: Hamas, Hezbollah, Houthi, Jihad Islamica, forze di mobilitazione popolare in Iraq – l’Italia da tempo sostiene e dà impulso al percorso di creazione di uno Stato palestinese con le caratteristiche menzionate. 

Non sfugge peraltro come diversi riconoscimenti dichiarati frettolosamente da partner occidentali a favore di uno Stato palestinese scaturiscano da considerazioni anche di politica interna volte a rassicurare le sempre più influenti comunità islamiche esistenti in Europa. Una strategia contestata da più parti per l’ulteriore incoraggiamento che ne deriva alle componenti fondamentaliste di tali comunità. Ad esempio quelle che riguardano le richieste di sovraordinazione della sharia alle legislazioni nazionali. 

Tali riconoscimenti, anticipati rispetto all’emergere di una verificabile entità statuale, sono ritenuti da autorevoli internazionalisti di natura essenzialmente “declaratoria”, piuttosto che “costitutiva”. In questo senso, i proponenti della creazione dello Stato palestinese dovrebbero interrogarsi su alcuni punti.  

Come sostiene il prof. Attila Tanzi nel suo manuale “Introduzione al Diritto Internazionale” del 2022, vi è innanzitutto il rischio concreto di congelare di fatto il percorso di riconoscimento della Palestina come Stato e come membro effettivo dell’Onu. 

Sarebbe infatti irrealistico immaginare che il realizzarsi di uno Stato palestinese possa prescindere dall’approvazione, ad esempio, degli Stati Uniti che dispongono del diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, organo delle Nazioni Unite cui spetta la decisione sull’ammissione di un nuovo membro al sistema societario. Ricordiamoci che tale traguardo, che è un elemento costitutivo di indiscutibile importanza nel sistema giuridico internazionale, per l’Italia richiese nove anni di negoziati a causa della contrapposizione est-ovest.   

Vi è poi, prosegue il prof. Tanzi, “il requisito dell’effettività del potere di un governo unitario e indipendente su di un popolo stanziato su di un territorio unificato politicamente” che ad oggi semplicemente non esiste poiché “l’Autorità Nazionale Palestinese esercita un potere effettivo solo su una parte del territorio palestinese, la Cisgiordania”. Conclude dunque il prof. Tanzi, che “non si può quindi non condividere la tesi diffusa per cui il riconoscimento abbia valore meramente ricognitivo e non costitutivo della personalità giuridica, avendo valore esclusivamente politico.” 

Nelle condizioni attuali, dunque, la prospettiva ideale – evidentemente da aggiornare – resterebbe la “Road Map” del Quartetto nel solco tracciato dagli Accordi di Oslo. Essi rappresentano ancora un quadro di riferimento di una strategia che intenda veramente contribuire nei fatti alla costituzione di uno Stato palestinese: quale risultato di un indispensabile accordo fra le parti in una controversia, quella israelo-palestinese, che dura da troppo tempo. 

Il percorso verso la soggettività piena ai sensi del diritto internazionale vigente di una nuova entità statuale, secondo le opinioni accademiche più accreditate, comprende inoltre una serie di obblighi che ogni Stato deve assicurare di fronte alla comunità internazionale. Si trovano importanti precedenti nella storia della decolonizzazione degli anni ’60, nello scioglimento della Repubblica Federale di Iugoslavia con l’emergere di nuove realtà statuali, e nei casi del Sud Sudan e di Timor Leste. Una nuova entità statuale palestinese dovrebbe essere in grado “ab initio” di assumere responsabilità fondamentali quali il rispetto della sovranità degli altri Stati, la lotta al terrorismo con l’uso legittimo della forza, e il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto. 

 

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