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Al di là dei numeri sulla carta e nei seggi, chi ha l’egemonia culturale del governo di Giorgia Meloni, il partito di maggioranza relativo FdI, (Fratelli d’Italia), o uno dei partner di minoranza, la Lega o Forza Italia?

Col passaggio in Senato della riforma sulla autonomia differenziata delle regioni la Lega prova di avere l’egemonia culturale dell’esecutivo. Infatti nulla di più diverso di questa autonomia che tendenzialmente spacca l’Italia dovrebbe essere nel programma “nazionalista” di FdI. Invece il potere al nord, il “da Firenze in giù l’Italia non c’è più”, il “forza Etna” e “Forza Vesuvio”, promossi nei fatti dalla riforma, sono nel vecchio Dna valoriale della Lega.

La questione dell’egemonia culturale è fondamentale. Il Pci, pur non al potere, riuscì a imporre la sua egemonia culturale alla fine degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Con questa influenza massiccia poi riuscì a condizionare gli eventi degli anni ’90 che portarono allo scioglimento della Dc, sfarinata per una mancanza di coagulo e forza alternativa culturale.

Il Pci allora applicava la teoria di Gramsci sulla egemonia culturale, che poi aveva studiato millenni di storia della Chiesa in cui papi e vescovi erano riusciti a imporre la propria influenza sottile e pervasiva per secoli in regni e società di tutto il mondo. La stessa teoria ha una versione più moderna nell’adattamento di Joseph Nye sul Soft Power, il potere soffice che una potenza deve esercitare in primo luogo per avere potere. Il potere “duro”, militare e di forza, è infatti soggetto a una “inflazione” progressiva – più lo si esercita meno effetto ha. Il potere soffice, l’egemonia culturale, l’influenza funziona invece al contrario, più lo si esercita e più è efficace.

La Lega di Matteo Salvini e del suo ideologo Roberto Calderoli ha messo in moto questo motore di soft power con l’autonomia differenziata. Il progetto culturale è semplice: lasciamo i soldi a chi li fa. Se Lombardia o Veneto pagano più tasse che tali risorse restino a loro. Così quando l’illustre giurista Sabino Cassese spiega che con la riforma le regioni possono entrare in competizione fra loro e quindi il sud potrebbe in teoria fare meglio del nord, prova che la tesi ha fatto breccia.

Si è invertita la direzione di pensiero che ha dominato la penisola italiana per circa due secoli. All’inizio dell’800 sempre da nord, da Milano proprio, invece si cominciava a diffondere l’opinione che la penisola, mai stata soggetto politico unitario e dai confini politici confusi, dovesse essere unita. Il progetto era ideale, culturale, infatti Corsica, Malta e Dalmazia, storicamente parte di una koinè culturale italiana, finirono fuori dall’Italia politica. Invece il Sud Tirolo, autenticamente austriaco, la Val D’Aosta, spazio di confine, vi rientrarono.

Allora l’unità era spinta dai sogni romantici delle nuove identità culturali nazionali che dovevano sostituire gli imperi multi etnici. Inoltre la persona statale di una riscoperta res publica doveva sostituire l’autorità unificante del sovrano. Oggi la pressione per la “regionalizzazione” del Paese viene da due direzioni più pratiche e meno ideali. Dopo due secoli di tentativi e forti emigrazioni interne, le pulsioni identitarie locali rimangono più forti di quelle nazionali. Inoltre le differenze economiche e di sviluppo regionali rimangono importanti né decenni di sforzi profusi per la “questione meridionale” e migliaia di miliardi di vecchie lire, sono riusciti a colmare il baratro.

La scelta può avere una sua legittimità politica e culturale ma qui si aprono due finestre una di partito e una più generale geopolitica.
La geopolitica è più semplice. In un mondo di confronti fra mega Stati, dove gli Usa sono già piccoli rispetto a giganti come Cina, India. Possono entità di pochi milioni di abitanti, come le regioni italiane, vivere da sole senza essere in un modo o nell’altro schiacciate? È improbabile, a meno che non si torni all’idea di una specie di neo impero franco-germanico che includa anche pezzi di Mittel Europa ed escluda il sud Italia, troppo assorbito dalle dinamiche mediterranee.

L’ipotesi non è stata espressa compiutamente perché comporterebbe la spaccatura orizzontale della penisola. Né ora vale la pena esaminare le eventuali conseguenze disaggreganti e riaggreganti sull’Europa e il mondo di tale ipotesi. Ma è opportuno tenerla a mente per avere presente l’orizzonte totalmente nuovo verso cui oggettivamente ci si dirige.

Da un punto di vista di partito del FdI c’è un problema forse più sostanziale. Che progetto politico-culturale ha davvero Meloni per l’Italia? Crede davvero che il governo centrale del Paese possa uscire rafforzato da questa riforma? Se è così, è ingenua. Se non ci pensa, e come è più probabile, si tratta di un dazio temporaneo da pagare alla Lega per una pace elettorale in vista delle Europee a giugno, c’è un’altra ingenuità.

Meloni non si rende conto che le idee una volta varate camminano su gambe proprie. Regioni anche solo in teoria autonomizzate, con governatori consolidati sul territorio, creano gruppi di interesse e centri di potere con forze centripete sempre crescenti rispetto a Roma. Anche nell’ipotesi che oggi forse l’autonomia non passa, passa l’idea che è all’ordine del giorno, che si può fare, se non oggi domani. Oppure che il Parlamento discute di questi temi per accantonarli, cioè c’è uno svilimento dell’istituzione centrale a fronte di una affermazione locale.
Soprattutto non si vede che questo è un seme germogliato dopo decenni di incuria centrale e cura locale – che l’Italia unitaria è ingovernabile e occorre tornare a entità periferica.

Però senza lo slancio nazionale unitario FdI culturalmente è una scatola vuota, fatta di pulsioni revansciste, apologie impotenti di violenza, rigurgiti, mal di pancia, sogni o incubi mal digeriti – “semo de destra”, “ci piace il saluto romano”. Ma non va da nessuna parte, viene fagocitato nei fatti, culturalmente dalla Lega. Il fascismo, con tutti i suoi orrori, aveva un progetto culturale vero. Il nazismo era aberrante proprio per una sua visione coordinata neo pagana e razzista culturale.

Il FdI invece non ha un progetto culturale, ma suggestioni. Non ha traghettato verso il centro e non ha nemmeno abbandonato suggestioni del passato. Così viene inglobato dalla cultura leghista, al di là di chi prenderà più voti.

Legittimo, basta saperlo.

Se Meloni vuole invece rimanere in piedi alla fine della giornata dovrebbe muoversi davvero verso il centro, cambiare testa, altrimenti sparirà. Gorbaciov lanciò le sue riforme cerando di tenere il vecchio Pcus unito e rifiutandosi di epurare la sua sinistra. Alla fine però fu la sinistra a cercare di eliminarlo con il tentativo di colpo di Stato del 1991. In Cina forse il presidente Xi Jinping, memore dell’esperienza sovietica, prima di affrontare riforme radicali, ha voluto epurare il suo partito. Di sicuro in Italia Meloni rimane stritolata se non si libera dell’egemonia culturale leghista e dei suoi propri rigurgiti fascisti, e non crea un’altra cultura che guardi all’oltre 50% di elettori che oggi non votano.

L’opposizione tace su questo, come gran parte dell’opinione pubblica. Il vecchio e astuto Claudio Signorile vede la tendenza e chiede una sostanziale secessione del sud, un coordinamento delle regioni meridionali per affrontare le richieste di Roma. Oggi i tempi non sono maturi, ma se si continua su questo crinale lo saranno presto. Se ciò accadesse si innescherebbero tendenze centrifughe anche a nord. Le regioni del nord dopo essere andate in concorrenza con il sud andranno in concorrenza fra loro e rimarrà solo la più forte, Milano e la Lombardia, che poi, senza profondità strategica, sarà schiacciata dalla prima potenza media che passa.
Auguri senatore Salvini.

L'autonomia differenziata e l'egemonia culturale leghista. Scrive Sisci

Col passaggio in Senato della riforma sulla autonomia differenziata delle regioni la Lega prova di avere l’egemonia culturale dell’esecutivo. Infatti nulla di più diverso di questa autonomia che tendenzialmente spacca l’Italia dovrebbe essere nel programma “nazionalista” di FdI. Se Meloni non vuole essere stritolata dal soft power di Matteo Salvini deve muoversi al centro e creare nuova cultura moderata e nazionale. L’opinione di Francesco Sisci

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