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Uno degli effetti della recessione indotta dalle restrizioni sanitarie è l’eccessivo ricorso delle imprese all’indebitamento dopo il faticoso riequilibrio finanziario seguito alla recessione del 2012. La nuova ondata di debiti, imprevista e in parte forzata, non è servita a finanziare nuovi investimenti, ma a resistere alla crisi ed evitare l’insolvenza, se non la chiusura. Si spiega così l’impennata della domanda di credito bancario che si è vista fin dal marzo scorso e che, nonostante i rischi della recessione, ha trovato soddisfacimento nell’atteggiamento favorevole delle banche e nei costi storicamente bassi che sono stati applicati. Malgrado il settore dei servizi sia risultato il più colpito dalle restrizioni, sono quelli manifatturiero e delle Pmi che hanno fatto registrare la maggiore impennata.

I dati della banca centrale, tuttavia, non mostrano una situazione allarmante perché il tasso d’indebitamento (leverage finanziario) non ha raggiunto ancora i picchi del 2009-2010, ma in rapporto al Pil il livello dei debiti finanziari è salito rapidamente portandosi al 74,7% nel terzo trimestre del 2020. Quando pubblicheranno dati più recenti si vedrà probabilmente un ulteriore innalzamento verso i livelli storicamente più alti.

Il quadro apparentemente disteso è dovuto, in realtà, al sostegno dato dalla Bce e dal governo, la prima con uno straordinario allentamento delle condizioni monetarie e il secondo con l’offerta di generose garanzie sui prestiti delle banche e con una forzosa moratoria nei rimborsi dei prestiti sino al giugno dell’anno corrente. A fine gennaio scorso erano state accolte moratorie su prestiti alle imprese per 154 miliardi, a cui vanno aggiunte quelle per 18 miliardi promosse dall’Abi. Inoltre, le Pmi avevano ottenuto garanzie pubbliche su finanziamenti per circa 133 miliardi e le grandi imprese per circa 21 miliardi. Le banche avevano anche ricevuto risorse messe a disposizione dalla Cassa Depositi e Prestiti, dalla Bce e dalla Bei per finanziare diverse categorie di imprese.

L’apparente distensione, pertanto, nasconde lo stato di fragilità finanziaria di molte imprese, non superabile se non in presenza di una vigorosa ripresa dei fatturati a breve termine e di un prolungamento consistente dell’atteggiamento accomodante delle autorità monetarie, nonché di quelle di supervisione bancaria. Quest’ultima ha allentato i rigorosi criteri per classificare i prestiti nella categoria dei deteriorati, ma si tratta di una modifica temporanea. Attualmente i nuovi ingressi dei prestiti nella categoria dei “deteriorati” si mantengono su un livello basso (attorno all’1% di quelli concessi), al pari del totale che si colloca al 5,5% al lordo delle rettifiche di valore.

Ma l’assenza di tensioni per quanto tempo potrà ancora durare ed essere sostenibile? Il ritorno alla crescita risulta decisamente lento a causa delle persistenti restrizioni per motivi sanitari non solo in Italia, ma in Europa e negli Usa. L’occupazione non dà segni di ripresa, ma mostra un calo particolarmente nei contratti a termine. Le misure governative di blocco delle procedure esecutive e fallimentari non permettono di valutare quante imprese siano in uno stato prefallimentare o in stato d’insolvenza. Al tempo stesso, le autorità monetarie si attendono un aumento dei crediti deteriorati per effetto della crisi, e quelle di vigilanza bancaria hanno iniziato ad applicare norme più stringenti nei tempi oltre i quali i prestiti vanno classificati in “deteriorati”, il cosiddetto meccanismo del calendario. Ne seguirà un atteggiamento più restrittivo delle banche verso la concessione di credito alle imprese indebitate, con ripercussioni negative sulle attività economiche e sulla resistenza alla crisi. Probabilmente, il credito facile della Bce alle banche non le distoglierà dall’applicare una maggiore cautela nel finanziare le imprese con fatturati ristagnanti su bassi livelli.

Questo rischio insieme a quello di un prolungato ristagno della domanda interna ed estera a causa della pandemia inciderebbero pesantemente sulle prospettive per il biennio 2021-2022. Se si avverassero queste ipotesi, la banca centrale stima una decurtazione della crescita attesa di 3,4 e 2,4 punti percentuali nei due anni.

Come reagirà il nuovo governo al complicarsi dell’uscita dalla crisi? Indubbiamente, cercherà di accelerare il ritmo delle vaccinazioni per poter eliminare gran parte delle restrizioni e riportare l’attività economica alla normalità, ma ciò richiederà ancora alcuni trimestri fino al prossimo anno. Nel frattempo, si troverà alle prese col difficile problema se e a quali condizioni estendere le misure di sostegno. La più semplice soluzione sarebbe continuare a offrire, come fatto nei mesi scorsi, garanzie su crediti, Cigs per tenere i lavoratori ridondanti in azienda, blocco dei licenziamenti e prolungamento della moratoria forzosa su rimborsi di prestiti e procedure esecutive e fallimentari. Sono, tuttavia, provvedimenti che, oltre a essere poco efficaci per rilanciare produzione ed investimenti, risultano molto onerosi tanto per il bilancio pubblico e il relativo debito, già ai limiti della sostenibilità, quanto per gli imprenditori, che si troverebbero a operare ancora in condizioni restrittive della autonomia gestionale. Né gioverebbero loro i nuovi ristori che andrebbero erogati alle categorie di imprese affette dai blocchi di attività. In posizione migliore sarebbero solo quelle imprese che possono contare sulla ripresa dei mercati esteri, e sull’appartenere a settori che producono beni e servizi essenziali per la popolazione.

Sarà, pertanto, necessario cercare forme di sostegno alle imprese e di stimolo agli investimenti, ai consumi e all’export che siano al tempo stesso efficaci e meno costosi per il bilancio pubblico. I fondi dell’Ue sono essenziali a questo scopo, soprattutto per la parte di sovvenzioni, ma andrebbero concentrati in impieghi ed investimenti a più alto rendimento per sollecitare la crescita economica. Questo sarà uno dei primi banchi di prova dell’efficacia del nuovo governo. Le riforme di sistema sono l’altro grande capitolo degli strumenti che andrebbero usati per ridurre le pastoie alla crescita derivanti dalla burocrazia, dalle procedure amministrative e dalla giustizia. Sul governo incombe, inoltre, il compito di far sì che la disciplina del lavoro favorisca l’adattamento delle forze di lavoro alle esigenze dell’evoluzione in corso nei modi di produrre, far mercato e consumare. Si tratta di migliorare le competenze attraverso una formazione mirata, di favorire la mobilità tra comparti produttivi e tra regioni, di ottenere un miglior rapporto tra retribuzioni e produttività, e di rendere l’istruzione a tutti i livelli funzionale alla transizione verso una realtà lavorativa e sociale sempre più digitalizzata.

Questi interventi, tuttavia, non risolvono il problema dell’eccesso di indebitamento in cui si trovano molte imprese per sopperire ai ridotti flussi di cassa, né il riequilibrio finanziario appare automatico o semplice nella fase di ripresa economica, soprattutto se occorrono nuove risorse per il rilancio produttivo. Estendere le garanzie pubbliche sul loro debito espone la finanza pubblica al rischio di andare incontro a un consistente onere di rimborsi di crediti insoluti. Ritardare l’emergere di insolvenze prolungando i blocchi dei mesi scorsi non allevia il problema ma può ingrandirlo.

L’altra strada imboccata dal governo consiste nel partecipare alla ricapitalizzazione delle società e delle PMI attraverso due canali, con incentivi fiscali agli aumenti di capitale dei soci, e mediante il finanziamento di fondi di investimento, o fondi dei fondi, o di venture capital, specializzati nell’acquisire partecipazioni nel capitale di PMI. La partecipazione non è senza scadenza in quanto entro una certa data, cinque o più anni, dovrebbe essere ceduta al mercato. Queste misure sono utili ed innovative; tuttavia, l’ammontare di risorse allocate è necessariamente limitato, né sembra giustificato il ritorno di una diffusa presenza della proprietà pubblica nel mondo delle imprese. L’esperienza dei decenni passati è, invero, costellata di pochi successi e troppe perdite.

Altre due alternative non sembrano nemmeno realizzabili senza oneri per le banche e gli altri creditori. L’una consisterebbe nel ristrutturare i debiti su lunghe scadenze e con una riduzione del dovuto. Per le banche significherebbe dover accantonare più capitale a riserva a fronte del maggior rischio, specialmente in questa fase che vede una bassa remunerazione del capitale investito. L’altra prevedrebbe la conversione dell’eccesso d’indebitamento verso le banche in una partecipazione nel capitale della società/impresa debitrice. Questa opzione comporta una condivisione del rischio operativo, che solo nei casi di grandi esposizioni verso grandi aziende le banche creditrici accetterebbero come estrema soluzione.

Spetta, invece, agli investitori privati contribuire in misura determinante al rafforzamento patrimoniale delle imprese, un traguardo raggiungibile solo se si realizzassero condizioni appropriate. In particolare, occorrono un ambiente più favorevole per fare impresa e per attrarre i finanziatori, un trattamento fiscale che consentisse un miglior rendimento del capitale investito, e un atteggiamento cooperativo delle istituzioni. Anche gli investitori istituzionali dovrebbero trovare più convenienze per indursi a impiegare i risparmi degli italiani nella partecipazione al capitale di rischio delle imprese italiane, particolarmente in una fase di bassi rendimenti ottenibili nei mercati del credito.

Si torna, quindi, alle considerazioni precedenti sulle condizioni del sistema Italia, alle riforme sistemiche e al ridurre l’incertezza sulla continuità negli anni dell’orientamento governativo in fatto di impresa, lavoro, investimenti e fisco.

Si vedrà prossimamente se il governo saprà realizzare un delicato bilanciamento tra l’uscita graduale dalle politiche di sostegno ed assistenza diffusa, e quelle dell’incentivazione agli investimenti privati nel capitale produttivo dell’impresa Italia.

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