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Con trenta Rafale e una buona dose di realpolitik, la Francia si è ripresa l’Egitto. Il momento non è casuale, visti i grandi movimenti geopolitici che attraversano il Mediterraneo, tra la delicata pacificazione della Libia e l’altrettanto delicata normalizzazione dei rapporti tra Il Cairo e Ankara. Di fondo, si delinea un tentativo di stabilizzazione dell’area che non può trovare l’Italia indifferente, anche sul fronte dell’export d’armamenti.

Non è certo una novità che la Francia abbia pochi peli sullo stomaco quando si tratta di vendere armi in giro per il mondo. È saldamente il primo Paese europeo a livello di export militare, in crescita da anni soprattutto in Medio Oriente e nord Africa, area che considerata rientrare nella propria sfera di tradizionale influenza. È altrettanto noto lo storico rapporto nel campo dei sistemi di Difesa tra Parigi e Il Cairo, corredato nel 2015 da un contratto per 24 Rafale. Eppure, la notizia della nuova vendita ha sorpreso i più. Da qualche anno le relazioni tra Francia ed Egitto avevano subito un discreto raffreddamento, complici anche le perplessità transalpine sul tema dei diritti umani. Tuttavia, ha prevalso la realpolitik (come dovrebbe essere per la politica estera di ogni Paese) e l’interesse comune sul contrasto al terrorismo islamico. A dicembre, Abdel Fattah al Sisi è stato ricevuto in pompa magna a Parigi, accolto da Emmanuel Macron, pronto a chiarire che non avrebbe condizionato i rapporti in materia di difesa al tema dei diritti umani.

Ieri ne è arrivata dimostrazione: trenta caccia Rafale, corredati da motori e missili, con apposito supporto logistico, per un valore stimato nell’ordine dei 3,75 miliardi di euro. Cifra che l’Egitto pagherà grazie a un prestito, da restituire in dieci anni, concesso da Parigi attraverso diversi istituti finanziari, sintomo della volontà francese di arrivare al contratto che fa la gioia, soprattutto, di Dassault.

Ma oltre il valore economico e industriale, c’è quello strategico. Come scriviamo da tempo su queste colonne, l’export militare è componente rilevante dalla politica di Difesa, a sua volta pilastro importantissimo della politica estera. Dunque, uno strumento a servizio dell’interesse nazionale. Attraverso le vendite di sistemi d’arma si consolidano rapporti strategici, si stringono partnership e si creano relazioni destinate a maturare nel tempo. Attraverso la cessione di armamenti, il fornitore matura nei confronti del destinatario un utile elemento di leva, un fattore di “moral suasion” da poter spendere nelle giuste occasioni. Non è un caso che l’acquisto turco dell’S-400 russo abbia fatto arrabbiare tanto gli Stati Uniti, né che la vendita di F-35 alla Polonia dia tanto fastidio a Mosca.

Non è neanche un caso che le due Fremm italiane consegnate all’Egitto abbiamo generato particolare freddezza oltralpe, tanto più se accompagnate dalla prospettiva di ulteriori vendite dall’Italia per gli addestratori M-346, altre fregate, pattugliatori ed Eurofighter. Questi, secondo i racconti della stampa, erano i sistemi nostrani destinati a essere coinvolti in una maxi intesa con l’Egitto. Non è chiaro come la vendita dei trenta Rafale impatterà su tale prospettiva, ma è chiaro che i margini si riducono soprattutto per gli Eurofighter.

A prescindere dai contratti e dalle intese, è però l’approccio all’export che trova nei trenta Rafale un utile caso-studio. Da un paio d’anni la Francia avvertiva di aver perso terreno nei confronti dell’Egitto (quella “moral suasion” di cui sopra). Parallelamente, l’Italia recuperava sul fronte militare con le Fremm e altre prospettive, ma mostrava durezza con Il Cairo tra omicidio Regeni e caso Zaki. Il nostro Paese condiva il tutto con la consueta cautela all’export di sistemi d’arma, intrecciata ad approcci ideologici che, nel frattempo, trovavano sfogo sulle bombe dirette a Emirati Arabi e Arabia Saudita. La realpolitik ha così premiato la Francia, tra l’altro nel momento in cui Il Cairo lavora per normalizzare i rapporti con la Turchia, facendo emergere movimenti di stabilizzazione dell’area a cui l’Italia non può permettersi di non guardare. Anche perché coinvolgono il Mediterraneo nel suo complesso e la Libia, da tutti definita a ragione “la priorità” della nostra politica estera.

È chiaro che tutte queste valutazioni non possono limitarsi a un ufficio della Farnesina. È per questo che Michele Nones, vice presidente dello Iai, ha rilanciato su queste colonne l’idea di ripristinare il Cisd, il comitato interministeriale introdotto nell’85 ma cancellato nel ’93, “in modo da non fare prevalere un singolo profilo ministeriale su tutti gli altri e da trasformare ogni decisione in una scelta governativa”. Per la stessa ragione, il generale Vincenzo Camporini ha invocato una politica “sana” per l’export della Difesa, “in modo da indirizzare le politiche di marketing verso Paesi con cui si ritiene necessario stringere legami di cooperazione in uno spazio che sia più ampio di quello meramente commerciale, a sostegno degli interessi del Paese, certo, ma anche della promozione delle politiche che si intende coerentemente sostenere”.

Il direttore di Analisi Difesa, Gianandrea Gaiani, ha presentato invece “forti sospetti“, che “dietro l’umanitarismo (del dibattito italiano, ndr) si nascondano spesso interessi ben diversi”, che “dietro l’attenzione ai diritti umani, qualcuno si preoccupi di sostenere l’industria e il sistema di un Paese straniero”.

“Se approviamo una licenza di fornitura e poi, a metà della sua attuazione, la blocchiamo, con quale credibilità possiamo presentarci a un altro Paese?”, si domandava ancora prima Carlo Festucci, segretario generale dell’Aiad (la Federazione delle industrie italiane dell’aerospazio, difesa e sicurezza), nell’intervista di Formiche durante i giorni di Idex, il salone emiratino di Abu Dhabi. “Non si può fermare un accordo nel bel mezzo della sua attuazione – aggiungeva – già me li immagino i nostri competitor che si presentano da potenziali nuovi clienti a raccontare che l’Italia blocca le licenza dopo averle approvate”.

Diritti e interessi in Difesa. Ecco la lezione della Francia in Egitto

Da Parigi è arrivata una lezione di realpolitik non indifferente in un momento non casuale. Il Cairo lavora per normalizzare i rapporti con la Turchia, facendo emergere movimenti di stabilizzazione dell’area a cui l’Italia non può permettersi di non guardare. Anche perché coinvolgono il Mediterraneo nel suo complesso e la Libia, da tutti definita a ragione “la priorità” della nostra politica estera. Serve, però, un dibattito “serio” sull’export militare

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