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Qualcuno mastica amaro il fatto che Mario Draghi proceda spedito nel suo difficile compito, anche se ben pochi lo esprimono con chiarezza, come Dibba che ha definito il presidente incaricato l’Apostolo della élite.

Probabilmente Draghi non si è sentito offeso per questa definizione, perché è consapevole che proprio nell’appartenenza ad un ‘’circolo’’ di grandi decisori internazionali sta la sua forza. Del resto, anche l’opinione pubblica – dopo la sbornia dell’ “uno vale uno” e di un sovranismo d’accatto – si è resa conto che un Paese va a rotoli senza una élite riconosciuta come tale.

E non è solo un problema di stile, di rapporti, di competenze, di autorevolezza, di prestigio. In un batter d’occhi, diventa una questione economico-finanziaria che chiama in causa il risparmio delle famiglie, anche di quelle che il 4 marzo 2018 hanno votato per le forze ‘’antisistema’’.

Mi sia consentito di rinfrescare la memoria ai lettori. Quando i caporioni pentastellati festeggiarono sul balcone di Palazzo Chigi la ‘’conquista’’ del 2,4% del deficit nel bilancio 2019 era un giovedì. Il giorno dopo evaporarono sui mercati circa venti miliardi di capitalizzazione. Così, il lunedì successivo, il Mef dovette rimodulare quella percentuale riposizionandola su di un décalage triennale.

Quando quel deficit festoso e festeggiato, emblema della ‘’liberazione’’ dalla tirannia di Bruxelles, divenne il saldo del disegno di legge di bilancio (poi approvato dalla Camera) e fu comunicato alla Commissione, l’Italia rischiò l’apertura di una procedura di infrazione per debito eccessivo. A causa di quel ‘’numeretto’’ si svilupparono polemiche, furono messi in fuga gli investitori, impoveriti i risparmiatori, appesantiti i conti pubblici per effetto dell’aumento del servizio del debito. E rallentò l’economia portando con sé un peggioramento dei tassi di occupazione e di disoccupazione. Si mise a repentaglio la sottoscrizione dei titoli di Stato e lo spread tornò a crescere minaccioso.

Sappiamo poi ciò che successe in seguito, grazie al “ravvedimento operoso” di Giuseppe Conte che, in sede Ue, ebbe l’idea di invertire i numeri dopo la virgola (da 2,4% a 2,04%) e, qualche mese dopo, persuase il governo ad accettare il c.d. assestamento di bilancio, recuperando risorse dagli stanziamenti rigogliosi attribuiti a quota 100 e al RdC.

Furono, quei funambolismi, l’inizio di un cambio di linea (verso la Ue e l’euro) che oggi, se Draghi ce la farà, arriverà in porto a vele spiegate. Ma quei mesi di ‘’follia’’, di dichiarazioni avventate ed arroganti, di minacce da bullo, di insulti e di maleducazione, costarono agli italiani una trentina di miliardi, gettati al vento. Per diversi mesi, i due boss del Conte 1 provocarono più danni con le parole che con gli atti di governo.

La settimana scorsa, mentre Draghi si recava al Quirinale dove era stato convocato la sera prima, in apertura, i mercati (non solo Piazza Affari) intonavano il peana e lo spread andava a nascondersi (al pari di quel coccodrillo della favola che perde la dentiera) perché si accorgeva di non incutere più timore a nessuno. Come nella pubblicità di Carosello: Draghi, basta la parola.

Dopo alcuni giorni di consultazioni si delinea (ma non mettiamo il carro davanti ai buoi!) un quadro politico in grande movimento sia a sinistra che a destra. E ciò comporterà non solo la possibilità di sostenere il governo Draghi con un’ampia (e stabile se vi saranno conseguenze coerenti nella composizione della compagine governativa) maggioranza, ma anche l’apertura di una prospettiva diversa per il sistema politico, che si lasci alle spalle l’esito del voto del 4 marzo 2018.

Dalle urne uscirono vincitrici due forze anti-sistema che per circa 15 mesi governarono persino insieme. Poi per fortuna quel patto scellerato si spezzò. Il Conte 2 è servito a ripulire il M5S, portandolo, in poche settimane, dalla solidarietà ai gilet gialli all’espressione di un voto determinante per la  “maggioranza Ursula”.

Certo sul piano interno lo scoppio della pandemia ha portato acqua al mulino pentastellato imprigionando l’azione del Conte 2 nella politica assolutamente assistenziale della cig da Covid-19, del blocco dei licenziamenti e dei ristori, tutto a debito. Ma la barra ha continuato ad essere orientata in direzione di Bruxelles e del Ngeu.

L’inadeguatezza del Conte 2 veniva giustificata e tollerata dal rischio di spalancare le porte della cittadella ad un centro destra a direzione sovranista, antieuropea, egemonizzato da Matteo Salvini. In sostanza, si era ricostituita in Italia quella conventio ad excludendum che aveva imbalsamato la Prima Repubblica: un Paese fondatore dell’Unione europea non poteva cadere in mano ad un governo di indirizzo nazionalista-sovranista; l’Europa non avrebbe potuto sovvenzionare i suoi nemici (sempre che non fossero loro a rinunciare al Ngeu).

Il 20 marzo del 1948, un mese prima delle elezioni che segnarono il destino dell’Italia, George Marshall, il segretario di Stato Usa che promosse il European Recovery Plan, non ebbe ritegno a dichiarare  ciò che era ovvio e ragionevole; e cioè che un voto del popolo italiano a favore di una maggioranza del Fronte popolare filo-sovietico sarebbe stato considerato  come se fosse la  rinuncia al programma di assistenza americano.

Oggi Salvini ha preso in contropiede il Pd il cui gruppo dirigente aveva pronunciato un altro inutile  ‘’jamais’’ (quanti se ne è rimangiati!) contro l’entrata in maggioranza dei sovranisti. Come già nell’estate del 2019, i dem arrivano sempre buoni ultimi a capire l’aria che tira. Ha ragione Goffredo Bettini. È un problema della Lega, non del Pd, la sua partecipazione alla maggioranza e al governo Draghi.

Per Salvini è come andare a ricevere il battesimo nel Giordano dell’Europa, perché Draghi impersona l’Europa. È poi nella evoluzione delle cose che un’eventuale presenza di ministri della Lega (non si dimentichi che il ‘’personale’’ di questo partito ha esperienza di governo più di ogni altro) cambi l’atteggiamento del Carroccio verso Bruxelles e metta in crisi le attuali alleanze a livello europeo. Il che potrebbe significare che alla naturale scadenza della XVIII Legislatura si presenti agli elettori un centro destra ripulito, legittimato a governare all’interno delle scelte strategiche e tradizionali dell’Italia.

In tale contesto anche l’opposizione di FdI non sarebbe eversiva nei confronti dell’establishment. Come ricorda sempre Giorgia Meloni, lei è pur sempre la presidente dei conservatori, ma all’interno dell’Unione.

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