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Non capita tutti i giorni che il presidente americano bolli come assassino il leader di un’altra grande potenza. Non stupisce quindi che abbiano destato sensazione i passaggi dell’intervista recentemente rilasciata da Joe Biden, in cui l’inquilino della Casa Bianca ha ammesso di considerare il suo collega del Cremlino, Vladimir Putin, un killer. Costituiscono un fatto decisamente inusuale.

Proprio perché non ci sono precedenti freschi in materia, sembra naturale interrogarsi sulle ragioni che possano aver indotto Biden a una simile esternazione. Analogamente, è opportuna anche una riflessione su ciò che potrà derivarne.

Non è impossibile che si sia trattato di una gaffe, dopotutto Biden non è nuovo a questo genere di incidenti. Ma non è neanche da escludere che la sortita contro Putin rientri in un piano più ampio, che tende alla delegittimazione degli interlocutori politici internazionali giudicati a torto o a ragione più vicini a Donald Trump, che è rimasto attivo sulla scena interna americana nelle vesti di capo dell’opposizione.

L’attacco personale rivolto al presidente russo segue in effetti di poco quello scatenato dall’intelligence statunitense contro il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, accusato senza mezzi termini di aver preso parte alla congiura che portò nel 2018 alla barbara uccisione di Jamal Khashoggi. Non è quindi la prima volta che l’attuale amministrazione americana punta l’indice contro qualche grossa personalità straniera poco gradita e dai trascorsi dubbi o discutibili.

In secondo luogo, l’accresciuta pressione su Mosca coincide con una fase contrassegnata in Ucraina dall’accumulazione di forze governative a ridosso dei territori del Donbass: una circostanza che potrebbe anche preludere a un tentativo di Kiev di recuperare il controllo delle province separatiste con il sostegno di aiuti occidentali anche di natura militare.

In sintesi, per quanto rappresenti sicuramente un serio infortunio diplomatico, la frase proferita da Biden non sarebbe del tutto inspiegabile. Apparirebbe invece piuttosto coerente con una volontà della nuova amministrazione democratica di spingere nella direzione del cambiamento e della testimonianza dei valori liberali, anche quando ciò significhi accentuare l’instabilità.

Le differenze rispetto alla presidenza Trump non potrebbero essere più marcate. Infatti, il predecessore di Biden aveva fatto della ricerca della stabilità attraverso il rispetto incondizionato delle sovranità nazionali la stella polare della sua azione in campo internazionale, riconoscendo pari legittimità a qualsiasi interlocutore gli fosse stato proposto, incluse figure discutibili come il leader nordcoreano Kim Jong-un.

Del progetto di ricostruzione dell’ordine mondiale abbozzato da Trump, gli accordi di Abramo sono la traccia più tangibile giunta fino a noi. Molto probabilmente, il disegno avrebbe dovuto essere coronato da intese di portata ancora maggiore, una delle quali proprio con quella Federazione Russa di cui la squadra di Biden sembra invece desiderare oggi soprattutto la trasformazione interna in senso democratico.

Con le sue prime mosse, il nuovo presidente americano ha già impresso una netta soluzione di discontinuità rispetto a Trump, sui cui effetti si possono formulare al momento solo vaghe ipotesi. Ma alcune conseguenze sono da ritenersi inevitabili.

Mentre si può negoziare con l’uomo-razzo di Pyongyang, infatti, non è possibile sedersi al tavolo delle trattative con una controparte che sia stata pubblicamente bollata come criminale. Il dialogo con la Russia, dalla cui collaborazione dipende parte significativa della gestione della sicurezza internazionale, può quindi ritenersi compromesso prima ancora di iniziare.

Può darsi che adesso si vari nei confronti di Mosca una politica della “massima pressione” assai simile a quella adottata da Trump nei confronti dell’Iran, motivandola con la necessità di rispondere ai tentativi di interferenza nel voto presidenziale americano che i servizi statunitensi avrebbero documentato. Vi ha fatto del resto cenno lo stesso Biden.

Difficile, però, che nuove sanzioni inducano il Cremlino a cedere o determinino il rovesciamento di Putin. Anche in quel caso, poi, non si vede perché a succedergli dovrebbe essere un politico liberale che simpatizzi per l’Europa o la Nato. Per quanto sembri strano, infatti, proprio Putin è l’alfiere dell’Occidentalismo russo, come ci si attenderebbe del resto da un pietroburghese che non ha mai fatto mistero di ritenere Pietro il Grande il proprio modello di riferimento. Un autocrate, certamente, ma anche lo zar che portò la capitale imperiale sul Baltico, dando tra l’altro alla Russia la bandiera che ha tuttora: un tricolore derivato da quello olandese.

In America e in Germania si continua a credere che alle spalle di Putin vi sia da qualche parte un nuovo Gorbaciov che attende solo un corridoio per emergere. Ma una personalità del genere non esiste. E se esistesse, difficilmente avrebbe la forza necessaria ad affermarsi, dato il discredito che ha travolto negli anni novanta tanto le riforme dell’ultimo leader sovietico quanto quelle del primo presidente russo, Boris Eltsin.

L’esito più probabile del deteriorarsi ulteriore dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, inevitabile conseguenza della criminalizzazione di Putin, non sarebbe pertanto il rafforzamento a Mosca degli occidentalisti, e men che meno di quelli più liberali tra loro, ma l’ascesa del partito trasversale degli eurasisti filocinesi, già presente nei gangli vitali della Federazione, rispetto al quale l’attuale inquilino del Cremlino è forse l’ultimo baluardo.

Ora dobbiamo chiederci se ci convenga una Russia nel caos, o spinta nelle braccia della Cina, se non addirittura politicamente assoggettata a Pechino. Abbiamo davvero bisogno di instabilità alla frontiera orientale e meridionale dell’Unione europea in questo periodo in cui l’esigenza di riparare i disastri indotti dalla pandemia dovrebbe indurci alla prudenza per concentrare tutte le nostre risorse nella ricostruzione?

Cari amici americani, siamo con voi nella difesa della democrazia liberale: non dobbiamo stancarci di ripeterlo. Ma non è attaccando a testa bassa in questo modo che se ne favorisce la causa. Tanto più che mentre si critica con durezza Mohammed bin Salman e Putin, si cerca l’interlocuzione con il regime iraniano e si chiede al governo afghano di aprire le porte di Kabul al ritorno dei Taliban.

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